Sona e sono qui

Ci sono dei fatti che ti riportano a calci nel culo in posti in cui avevi deciso di non tornare più. O forse ci speravi o forse era una pausa. Ma tu cerchi di azzittire certe voci e un poco riesci. Ma poi sempre meno.

Sono successi dei fatti che mi hanno indotto a scrollare questa vergogna, questo pudore, anche paura e mi hanno scaraventato qui.

Due fatti in particolare, che non so neppure se voglio raccontare ora, potrei tenermeli per i prossimi post, in modo da avere un motivo per tornare, anche solo per soddisfare la curiosità, se in effetti ci fosse, dei pochissimi lettori a cui la parola m3mango fa venire in mente qualcosa.

Posso raccontare per ora, a piccole dosi come un drogato disintossicato che vuole tornare a farsi, il motivo di questo welcome back semi natalizio.

Fatti personali, non persone.

Il primo è stato un motivo sociale. Perché in effetti fin dall’inizio ho raccontato che questo blog era un servizio all’umanità di WordPress, forse anche per giustificare il sesso esplicito fine a se stesso, masturbazione per i più.

Bando alle ciance: ho provato il Sona e ho pensato che dovrebbe passarlo la mutua. Che sono geek, che sono un po’ nerd, che il Sona è una invenzione pazzesca che ti porta in lidi che a quarant’anni manco pensavo esistessero. Che il clitoride è potere e tutte noi dovremmo essere consapevoli di ciò.

Che è un regalo pazzesco e a Natale calza a pennello, altro che gioielli, pigiama felpato o stella di Natale screziata.

Che in solitudine o in compagnia come per magia ti fa conoscere lati nascosti. Che detto in parole poverissime ti fa squirtare di brutto. E non è poco. Vai a leggere i siti che ti spiegano passo passo come emettere lo schizzo e poi pensi Cristo Santo, non sarà questo che porterà alla parità dei sessi, ma almeno potrei tranquillamente fare la mia porca figura nei video di Tumblr che vedo solo in Wi-Fi per non rischiare di finire i giga della settimana.

Passiamo al secondo. Una serata tra sconosciuti, in una location stimolante, a vincere la mia timidezza e a fantasticare ‘io quello me lo farei’. Ascoltiamo un libro, mangiamo una pasta, ma io su quel divano concluderei la serata. Con la maestrina, con la pittrice, con l’uomo del sud, con lo scrittore, con il disegnatore. Ma magari ci torno con la postilla esplicitata: questi fatti non sono reali, non sono riconducibili a persone esistenti, che non è vero, ma tant’è.

Magico Mondo di M3m (1 parte)

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Eravamo in quattro e inspiegabilmente ci siamo parecchio divertiti. Eravamo lì per lavorare, ma tutti accumunati da una forte passione per quello che stavamo facendo. Gente fortunata, essere pagati per qualcosa che ci piace e ci fa stare bene.

Sembra quasi una barzelletta, dall’incipit.

C’è la signora ultra settantenne, ex bella, ma ancora ora, da metterci la firma e vendere l’anima al diavolo per sperare di potersi conservare così. Con il pellicciotto e lo stivaletto in tinta, che io appena salita in taxi ho dovuto cercare in fretta e furia su Yoox, guidata dal pensiero fisso: da grande voglio essere come lei! Biondo platino, coiffata di fresco, borsa Luis Vitton che invece mi fa orrore, ma nel complesso uno stile meraviglioso. Che io quasi intimidita da tanta grazia e splendore, le ho sussurrato: “Lei è bellissima” e la signora in questione mi ha abbracciata e baciata. Professionale come un puma, anni e anni di esperienza, riconosce la lunghezza delle piastrelle con una alzata di sopracciglio e un battito di mascara, senz’altro di alta gamma. Gestisce uno dei catering più longevi e sabaudi della città, un marchio di fabbrica.

C’è la responsabile gruppi e comunicazione del museo, uno dei più belli del mondo, ricco di atmosfera e fascino, tra pergamene e gatti egizi. Una che la prima volta faceva la maestrina e ora si era sciolta come neve al sole e ha raccontato tutta la sua vita: lavorava in Alpitour e nei villaggi all you can eat e provava amabilmente a convincermi che quella era la vera vacanza. Forse in pensione, ma non ne sono così sicura.

E poi c’è il fiorista, splendido cinquantenne, artista mani-abili, gran pregio per un uomo di tutte le età, che ti mostra in un soffio il book dei fiori composti, quadri viventi, serpenti di foglie e bacche profumate che si diramano lungo il tavolo imperiale, con gli occhiali strambi, una lente tonda e una esagonale, che ti chiama Amore e ti promette preventivi a prezzi popolari, non più di mille euro, tutto compreso.

Infine ci sono io, il cliente, se vogliamo, che come in un’orchestra osserva e coordina, sempre con un sorriso e la voglia di fare ed esserci.

Noi quattro insieme, arriviamo da percorsi differenti, mondi diversi, ma felici di essere artefici di questa bella serata, come cuochi che ci mettono tutto l’impegno, a cui poi magari neppure interessa mangiare, perché il divertimento è dietro le quinte, sul palco ci vanno altri. Noi siamo nel retro. Per fortuna.

Heracles Reed

Le collaborazioni tra blogger sono il sale della vita social.


Qui insieme al mitico Zeus e a una delle matite più sexi di WordPress: Ali di Velluto, che interpreta Sapienza. Voliamo alto, ne siamo consapevoli. Per il secondo finale ci rivediamo giovedì prossimo.

Heracles Reed non aveva mai viaggiato molto. Aveva sempre visto qualcuno viaggiare, muoversi, mentre lui era nel suo cubicolo a respirare smog, polveri sottili e maledizioni. Vivere così l’aveva invecchiato precocemente. I capelli, lunghi fino alle spalle e tenuti insieme con un elastico nero, erano striati di grigio e così, per qualche riflesso strano dei vetri, sembrava anche la faccia. Una faccia che, vista in un qualche pub o sulla piazza cittadina, poteva essere definita senza età, in quel cubicolo, con quei vetri resi scuri da una patina persistente di sporcizia, Heracles sembrava vecchio. I giovani avevano l’impressione di trovarsi di fronte ad un nuovo Matusalemme, i vecchi vedevano quello che li aspettava da lì a poco. Heracles, come diceva la carta d’identità, non aveva più di quarantacinque anni.

Ogni giorno l’uomo si alzava, faceva una colazione veloce con un caffé nero, lungo, e con un donuts coperto di una crosta di zucchero rosa dall’aspetto chimico. Finito il pasto, immerso in un silenzio quasi irreale, prendeva la metro e si dirigeva verso il posto di lavoro. Aveva odiato, e denigrato, quelle quattro mura per così tanti anni che, adesso, le bramava in una forma sadica di contrappasso.

Si era abituato ad osservare tutta quella umanità in movimento, distratta, sfuggente, muta. Buttavano tre monete sul suo piatto di metallo sbilenco e in cambio afferravano qualcosa da mettere sottobraccio. Rotoli di carta, che in poche ore perdevano di significato, come un biglietto della lotteria con l’ultima cifra strappata. Con le valigie pesanti, trascinate per corridoi bui e cupi, scarpe lucide su pavimenti lerci, musicanti improvvisati e stonati, che occupano troppo spazio e limitano il passaggio frenetico nelle ore di punta. Tacchi incerti sulle scale mobili rotte, militari con mitra che non avevano mai sparato, macchinette spara documenti di viaggio che nessuno pretendeva. Questo era il suo mondo, un’isola infelice, un cubicolo ricolmo di carta straccia, utile solo a pulirsi il culo. Heracles osservava i clienti coi suoi occhi a fessura e senza proferir parola, con gesti lenti e misurati consegnava l’oracolo.

Le ore e i giorni passavano identici e inesorabili. Non si fermavano per un morto al centro della dura piazza di granito o per un bambino disperso sotto le ali dei piccioni. Piccole unità di tempo, come eserciti in marcia, passavano davanti agli occhi di Heracles. L’uomo cercava di fermarli ma, ogni volta, ritraeva il pugno contenente aria e uno stelo di speranza essiccata. Dopo anni cercando di racchiudere il tempo nella coppa delle mani o di fermare le lancette dell’orologio, Heracles aveva optato per un’altra attività, spogliare chi li passava davanti di un bene prezioso: il loro tempo libero e le loro storie.

Era un hobby senza vittime, almeno così la pensava. Non chiedeva niente alle persone, le guardava passare indifferenti o fermarsi davanti a lui e porgere monete per informazioni. Lui rispondeva dando giornali e, nel suo piccolo, rubando qualcosa al suo interlocutore. Heracles non aveva nessun interesse per carte di credito o gioielli, non gli interessavano le proprietà o i beni materiali. La sua vita, per quanto semplice e dettata da un’economia di risparmio, gli andava bene così com’era. Lui si impossessava del tempo libero che lui, nella sua vita, non aveva mai assaporato.

Un giorno perciò smetteva di essere Heracles Reed e metteva i panni dell’uomo in viaggio per Miami. Il giorno successivo, stufo di essere stato a Miami, scioglieva l’identità dell’uomo in un miscuglio di rimpianti e nebbia, ed indossava le vesti del manager in tour per il Nord della Francia. 
- Quanto ho amato la baguette con il paté – si vantava con i suoi amici – Che emozione vedere le cattedrali e passeggiare nelle vicinanze dell’Arco di Trionfo. E il cimitero di Parigi! Che decadenza – soleva ripetere al suo piccolo pubblico che, incantato dai suoi viaggi e dalle sue avventure, beveva queste storie come un poppante succhia il latte materno. I giorni si ripetevano, inesorabili, uguali a se stessi, intervallati solo dai clienti dell’edicola che si presentavano al suo cospetto per comprare i giornali. I suoi vacui racconti immaginari scandivano il suo tempo.

Ma un giorno arrivarono due uomini e gli consegnarono una busta bianca. C’è posta per te, gli dissero e se ne tornarono da dove erano venuti. Non aveva mai ricevuto nulla in tutti questi anni. Mai un telegramma, una lettera, niente. Giusto le bollette a fine mese, miseri conti, da pagare in ritardo, sperando di evitare la mora. Heracles era stordito da questa novità e per dieci minuti la fissò in silenzio. Chi poteva mai avergli scritto? Non aveva parenti, non aveva amici, neanche un vicino di casa. Contollò più volte l’indirizzo per essere sicuro che non si fossero sbagliati. Ma a caratteri ben leggibili compariva il suo nome. Inequivocabilmente la missiva era per lui. A un certo punto inforcò gli occhiali fermati con lo scotch e prese ad aprire la busta, provando a non sgualcire la carta. Estrasse la lettera e prese a leggere.

“Egregio dottor Heracles Reed,
 La informiamo che deve recarsi entro 10 giorni dal ricevimento della seguente, all’indirizzo di via Boston 16, Chicago. Farà fede il timbro postale.
 Cordiali saluti”.

Ohibò.

Heracles fece un lungo sospiro e si accasciò sulla sedia.

FINALE 1

Qualcuno gli aveva scritto. Doveva viaggiare. Era il protagonista delle sue stesse fantasie. Sentì il formicolio del sudore freddo sulla fronte. 
Come doveva muoversi? Mille pensieri gli saltarono davanti agli occhi, come piccoli canguri contenenti idee. E veloci come erano arrivate, le idee sparivano lasciando Heracles immerso in una solitudine bagnata, umida di una paura atavica. Quella del cambiamento, della novità. 
Incominciò a scrocchiarsi il collo, muovendolo a destra e sinistra.

Respirò piano, aprendo a dismisura i polmoni fino a sentire la testa leggera per l’ossigeno. Cercava la calma e trovò un dolore lancinante al braccio. E poi al petto. 
Ebbe paura, ma solo per poco tempo.

Adesso poteva viaggiare, anche se il viaggio che l’aspettava non era per Chicago.

Nuovo anno?


Settembre è come gennaio. Ci sono i buoni propositi, quasi sempre trasgrediti. Però si fanno, chissà perché. Per mettere nero su bianco, focalizzarsi, avere degli obiettivi, dicono.

E come quando vorresti tanto un’agenda immacolata da riempire di fitti appunti. Pagine e pagine. Sempre ammirato chi fosse in grado di farlo. Magari una moleskine con l’elastico su un lato e lo spazio per la matita. Non ne sarei capace. Mi manca la costanza e pure la forza di volontà. Che su altri fronti sono un caterpillar e su altri una lieve foglia che galleggia sul mare.

Ma dicevo, amo fare le liste, quelle lunghe, elenchi puntati, col flag di fianco, che quando cancelli un punto ti riempi d’orgoglio. Che non importa tirare una riga su tutti, perché poi te li dimentichi e passi ad un’altra lista. E ora c’e pure l’app, che ti fa godere scuotendo l’iPhone.

Ecco la mia, per quest’anno:

  • Ricominciare pilates, i miei addominali ne hanno bisogno
  • Fare un vero e proprio corso annuale di roller
  • Riprendere le divertenti conversazioni in inglese con R.
  • Buttare via le cose inutili, soprattutto a casa
  • Eliminare qualche capo dal guardaroba, almeno quelli che non indosso da almeno 5 anni
  • Comprarmi un orologio (ma forse mi basta il telefono)
  • Leggere di più, non solo internet, ma anche libri*
  • Continuare a studiare. Al momento l’argomento che più mi interessa sono innovazione, sharing economy, start up e fabbrica 4.0
  • Imparare a fare meditazione
  • Bere almeno 1,5 litri al giorno di acqua
  • Dedicarmi alla resilienza, anima e corpo

* mi hanno prestato il Kindle: cosa posso desiderare di più?

Senso: vista


Di tutti i sensi a disposizione che non son cinque, ma almeno sei, di cui qui si cerca di far un’antologia da quattro soldi, l’occhio vuole la sua parte ed è la fetta più grande. Ingordo, certo, ma se a quarant’anni non porto gli occhiali e alla visita medica del dottore del lavoro, ogni 2-3 anni, mi si dice 10 decimi, complimenti, posso andare ben, ben fiera.

Opposto all’udito ci sta la vista, mentre il tatto fa categoria a sè, perché scivola senza ombra di dubbio nel torbido, più torbido.

Che mi piaccia guardare è ormai noto, pure la ricerca del bello, del brutto, della simmetria e dell’incoerenza. Del resto il linguaggio scritto e non scritto della comunicazione, che a volte viene confuso dai profani col marketing, che cos’è? Perché c’è qualcosa che funziona, equilibrata e suona bene, mentre un’altra no?

E dagli a correre a catturare con l’occhio una collezione di quadri, di oggetti, arte in generale. E dagli a scorrere su Tumblr per scegliere la foto giusta, per il mio post. Poi ogni tanto mi perdo, mi distraggo, mi eccito, ma quell’immagine è perfetta per me, ne sono certa e la salvo dal mare magnum. Saranno le luci, l’ambiente, l’aria che si respira. E tutto questo lo sanno i tizi che pubblicano le foto su Tinder coi gattini, con lo sfondo del bidet in secondo piano o le unghie visibilmente non curate, con i visi sfregiati dagli aloni bianchi e lo zoom ristretto sul cazzo semi eretto? A volte sforo nel patinato, me ne rendo conto, ma ti assicuro che anche a me piacciono quelle non professionali e caserecce, ma un minimo di buon gusto e occhio clinico, perbacco!

Che io son quella che a tavola si siede spalle al muro per guardarmi attorno, che sbircia dal buco della serratura, che amava osservare la gente che passa, seduta sul balcone pugliese,  a inventare voli pindarici sui personaggi che facevano le vasche verso il borgo. Che bei tempi andati ed anche odiati!

Senso: udito

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Di tutti i sensi e i doppi sensi, a cui sono instancabilmente legata, perché sono un esercizio per il cervello e per il corpo, che se tu afferri i miei doppi sensi e giochi di parole ed io i tuoi, siamo sulla stessa lunghezza d’onda, siamo insieme sul filo che ondeggia e ridiamo all’unisono e c’è sintonia e forse qualcosa di simile all’amore, dicevo, quello su cui sono in maggior difetto, è l’udito.

Perché se mi origli nell’orecchio, io afferro le singole  lettere che esco dalla tua splendida bocca, ma se sono dall’altra parte della stanza e non parli forte e chiaro, io non capisco.

Non voglio giustificarmi, sia mai, ma di tutti i sensi, quello che serve di meno é proprio questo. Non trovi? Per due anime che si cercano e non dichiarano a parole, ma coi gesti, la tensione reciproca, a che servono le emissioni vocali? Forse sto cercando una giustificazione ai tuoi silenzi, alle frasi spezzate che dette così non vogliono dire nulla, ad occhi discreti, mentre invece i fatti, quelli dichiarati e lampanti, parlano chiaro. Che quando ti chiamo rispondi, quando ti mando una foto mi mandi la faccetta coi cuoricini al posto degli occhi, che mi cucini, che voli da me.

E allora a che serve sentire con le orecchie, se gli organi del cuore, del cervello e del corpo tutto, parlano così chiaro?

Che poi non sentire significa anche un po’ dimenticare, non ricordare e tutto ciò è tipico mio, di Mango, M3 o come vuoi chiamarmi tu. Che il mio nome era un tempo così ricercato e unico e ora ce l’hanno tutte le bambine dai due anni in su. Che affronto l’inflazione!

Che poi si può anche dire, senza vergogna, di essere un pò sordi, del resto lo si può essere su tanti fronti, non trovi? Sordi alle richieste degli altri, sordi al silenzio, sordi al mondo intero.

Ma il silenzio a volte aiuta e pure le orecchie tappate, l’importante è la libertà di parole, che sostengo fortemente, sempre e comunque, pure quella di Charlie Hebdo.

Tokyo Hotel


Gintoki, non c’entra molto, ma mi è venuto così. Grazie per l’ispirazione, mondo gatto!

Ho sognato di essere in hotel. Quei casermoni enormi, tante stanze, tanti bottoni in ascensore. Che schiacci un tasto e non sai dove ti trovi, non sempre c’è il cartello che indica il numero di piano e ti confondi. Sempre.

Quei pavimenti ovattati, moquette di buon livello, peluria alta e densa che ci si sprofonda. Una carezza piacevole alla pianta del piede, che ha lungo camminato e sopportato il peso delle mie ossa, della mia carne. È come un massaggio, un preludio al lasciarsi andare, completamente. Perché quando mi tocchi i piedi, inevitabilmente chiudo gli occhi e apro un po’ le gambe.

Ormai le chiavi elettroniche credo siano una burla. Una qualunque apre tutte le porte. Chi mi garantisce che siano sicure? Protette per cosa? Vorrei entrare dove più mi aggrada, scegliendo a caso, confondendo come faccio sempre, i numeri delle camere. Ho il 456, il 645, no il 234. Non ricordo. Non chiedermi di memorizzare un numero per 24 ore. Mi è davvero impossibile.

Entro a caso. È un labirinto questo e le porte sono tutte aperte al mio tocco. Poggiare le dita sul pomello e lentamente divaricare l’uscio. Mi accolgono la penombra e i tuoi sussurri. Forse mi stai aspettando? Non cerco chiari elementi riconoscibili, che so, un libro sul comodino, le ciabatte, accanto al letto, la felpa col cappuccio che ho comprato online. Respiro l’odore di camera d’hotel e vengo a te.

Ci sei tu, my dear, in canottiera e mutandine, nonostante faccia parecchio freddo. Sei distesa sul letto con gli occhi socchiusi, mi riconosci e mi chiedi se ho una mela da offrirti. Quei frutti rossi che trovi solo al supermercato bio, talmente finti e lucidi che ti chiedi se possono rimbalzare e rimanere intonsi.

Per non fare rumore mi avvicino al tuo orecchio, non resisto e invece di risponderti qualcosa, ti alito un soffio. Calore per te. Risposta giusta, mi prendi la mano e la posi su di te. Protette in questo luogo ovattato, sbocconcelliamo la mela.

Chissà se qualcun altro si aggiungerà?

Le manie delle manie (Senso: tatto)

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Anche tu trovi quell’irrefrenabile desiderio di toccare, socchiudendo un poco gli occhi, lasciandoti un pò andare, allargando leggermente le narici, un sospiro rilassato a pieni polmoni, per sentire una superficie, un velluto, un elemento materico: il profilo arrotondato di una cover di plastica morbida, il pallone grutoluto che rimbalza così bene, che lo lanci e la presa è stucchevolmente perfetta, paf!, il vellutino di un colletto old style, rasato e verde smeraldo, il ciuffo di pelliccia, forse sintetica perché di cane mi fa parecchio impressione, la lana mélange grezza, preparata coi ferri, quelli grossi, dritto e rovescio, che da piccola ci avevo provato e imparato, ma non ero per niente buona, con le mani e tutto il resto, l’albume che cola nella ciotola piena di farina sbuffante, ho deciso di fare una torta, costi quel che costi, e poi mi accorgo, alla fine, che mi manca un ingrediente in casa, eh, no, non si può fare uno strappo, le ricette non si improvvisano, si seguono alla lettera, il liscio della fettuccia di raso, come quelle delle bomboniere, che odio, e appena ne ricevo una, è già dimenticata, la seta grezza di una camicetta parecchio scollata, che se non è di Zara, è morbida e affettuosa?

Te lo chiedo solo perché io lo faccio spesso. Non ci penso su, la mano scatta e tende per catturare quell’istante. E non importa se pare una mania, se è una mania. A volte ti appropri di un oggetto, perché è la materia che ti chiama. Molto primitivo, primordiale. È spontaneo come questo scrivere, tutto questo slancio di getto a voler comporre parole e post, come se ci si volesse improvvisare qualcosa che non si è.

Le vacanze stanziali in riva al mare mi fanno tristezza, mi deprimono terribilmente. Non sono fatta per sedermi sotto l’ombrellone e osservare la sabbia, l’acqua, le barche e i vicini molesti. E non sto parlando di settimane, ma di ore. Ma a volte succede, anche perché la pigrizia ti coglie e se lasci scegliere ad altri, puoi soltanto accettare di buon grado il menù all inclusive.

Della bisessualità e altre seghe mentali 

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Leggevo un articolo dell’Internazionale di circa un mese fa che rifletteva sul fatto che sono anni che la società racconta alle donne che la strada giusta è un matrimonio eterosessuale e poi figliare. Non so se diceva proprio così, ma questo è il messaggio che ho colto. E non venirmi a dire di citare le fonti, che questa non è un’opera scientifica, ma un blog di seghe mentali.

Comunque, dicevo, io ho colto questo messaggio.

Ora, io non voglio scendere nei dettagli e raccontare troppo i fatti i miei, anche perché non è questo lo scopo di questo spazio, però sta cosa mi fa riflettere. Io che cerco di affrancarmi dagli stereotipi di genere, ecco, io per prima ho sentito la necessità di fare delle scelte, scelte di vita, mica cazzi, perché in qualche modo sentivo il peso e il giudizio della società. Ora non voglio scoprirmi lesbica a 40 anni, perché non lo sono e l’apparato maschile, ma chiamiamolo pure cazzo, mi piace assai, certo è che se non avessi subito l’influenza della società, eccetera eccetera, ecco come minimo avrei desiderato, diciamo 25 anni fa, fare esperienze con il mio stesso sesso. E forse come me, mille altre donne, chissà. Che a me sembra normale e palese questo discorso, mentre invece alle più magari no. Perché io cerco sempre di capire se davanti a me ci può essere una donna che condivida questo mio stesso desiderio e non la trovo mai. Tutte a dire, no grazie, con le donne no.

Allora i motivi possono essere tanti o forse semplicemente io non piaccio (ma mi pare impossibile, perbacco). Beh certo non è detto che uno, anzi una voglia giocare a nascondino con me, il gioco della bottiglia, indovina dov’è la coniglietta, ma alla fine credo che se avessimo più apertura mentale, le bisessuali (almeno dichiarate) sulla faccia della terra sarebbero il triplo e io non avrei tutta questa difficoltà a trovare un’amica che la pensi come me.

Ecco, non voglio sembrare quella che usa il blog per raccattare fica (ma vah!), questo era solo un pensiero semiserio di un periodo semiriflessivo.

L’incontro

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Mi hai detto che finalmente vi sareste incontrati. Ero contenta che tu avessi combinato proprio quando io ero fuori due giorni per lavoro.

Mi avevi mostrato le sue foto. Era bella. Due occhi così. Un sorriso meraviglioso. La trovavo decisamente sexi. Immaginavo il suo corpo, proseguimento di quegli scatti di viso, che chiamano selfie. Che io vengo sempre malissimo, mentre lei, lei era bella. Avevo visto altre foto che la ritraevano e avevo composto, nel puzzle della mia testa, un corpo armonioso e desiderabile. Forse non avevo visto solo lei, ma tante donne, tutte quelle con cui ti divertivi a chattare, parlare, scrivere, scambiare foto. Ed ora avevi deciso di incontrare una di queste.

Mi hai parlato di pausa pranzo, un ritrovo sfuggente in mezzo alla folla. Non vi eravate mai visti di persona. Almeno è quello che mi avevi raccontato tu. Chissà se era davvero così.

Oppure era solo una di una ennesima volta? Un’ora a disposizione, minuti contati, sessanta. Per appoggiare la tua mano su quelle cosce bianche. Per sfiorare il mento su quelle spalle scoperte. Per intrufolare le mani in mezzo a lievi pelurie rasate.

Con l’eccitazione che scorre lungo la schiena. Con me lontana. Con la possibilità di spostarsi inosservati a casa nostra. 24 ore di tempo. Un letto ampio, senza lenzuola inutili. Solo un telo teso per attorcigliarsi e sudare.

Con la mia approvazione. Con la mia eccitazione. Non voglio guardare, non voglio assistere. Voglio racconti succinti, appena accennati. L’odore estraneo sul mio cuscino, forse anche un capello abbandonato ai piedi del letto.

Com’è andata? Era brava? Si è inginocchiata come nella migliore tradizione di Tumblr? Oppure le piaceva comandare, afferrarti tra i capelli e spingerti forte in mezzo alle sue natiche, per far lavorare la tua lingua nel suo buco del culo? Come l’hai scopata?

Aspetta, aspetta.

Accendo un’altra sigaretta e mentre mi sussurri ancora qualche dettaglio, mi passo la mano sul seno e chiudo gli occhi.