Facciamo un gioco

Lei (m3mango), Lui (wutternach)

Il locale è semplice, in un luogo semplice. La campagna, fuori città, una lunga strada semi deserta, l’ingresso illuminato con cura, senza strafare. Una trattoria, non qualunque, un posto per amatori. Pochi piatti ma curati, in ogni particolare. Mai affollata, soprattutto nei giorni feriali, ma mai vuota, come succede nei posti dove si mangia bene. La sala dove ci accomodiamo è piccola, una decina di tavoli in tutto. Quattro sono occupati, più il nostro. Un bicchiere di vino, nell’attesa.

Lui
“Sei molto sexy. Lo sei spesso, stasera in particolar modo.
Sai cosa? mi piace quando ti vesti così, quando usciamo e sei così attraente. Mi piace poterti guardare quando scendi dall’auto, quando cammini e posso osservare da vicino ogni tuo particolare, ogni particolare del tuo corpo. Mi piace il modo in cui lo metti in evidenza, senza esagerare. E sai cosa, in più? mi fermo ad osservarti, a immaginare guardandoti, i motivi per cui hai scelto quell’abbigliamento, perché so che quando scegli, pensi a quello che potrà accadere durante la serata. Penso che ti vesti per avere uno sguardo che ti desideri. Uno, il mio; ma non solo. Altri sguardi. Ti osservo quando esci con me e quando esci senza di me. Il piacere nel farlo è lo stesso, anzi. Anzi, forse guardarti seducente, uscire per una serata senza di me mi stimola l’immaginazione e di conseguenza il piacere.
Ora che sei con me ti guardo così, mi piaci. Mi ecciti”.
Lei
“Facciamo un gioco”, ti dico, “un gioco dei miei, quelli che ci mettono un po’ in imbarazzo, un po’ ci stuzzicano. Quelli che ci fanno anche un po’ male, ma poi ci permettono di andare a dormire abbracciati, per consolarci e leccarci le ferite. Che noi siam convinti di essere diversi da tutti, unici. Chissà se poi davvero è così. Guardati intorno, ci sono altri tavoli occupati: sono tutte coppie come noi, con gli stessi problemi e forse anche identici desideri. Scegline una. Quella che ti ispira di più. Quella che pensi di poter dominare. Quella che potrebbe starci al gioco. Quella con lui brutto e lei bellissima, o viceversa. Quella che sembra che la serata sia appena iniziata e forse proseguirà nel privè poco lontano da qui. Quella che frequenta i siti per scambisti, che si eccita a mostrarsi in telecamera, quella che si incastra perfettamente con noi. Ne hai la facoltà. E poi alzati da questa seggiola e vai a presentarti. Così su due piedi. ‘Vi dispiace se ci uniamo al vostro tavolo?’. Con un bel sorriso, potrebbero anche dirci di sì. Non essere reticente, dai. Ti adoro quando mi accontenti, anche se ti propongo una cazzata enorme, rischiosa, scomoda, faticosa, stupida. Mi piaci come appoggi il tovagliolo accanto al piatto, mi guardi, un po’ sbuffi, un po’ sei già eccitato. La serata potrebbe farsi interessante, oppure potresti tornare al tavolo, sconfitto, perché il gioco non è neppure iniziato”.
Lui
Lo sai che sbuffo perché detesto rompere le scatole a chi è venuto a mangiare per stare in tranquillità. Penso di poter passare per un rompicoglioni, e lo detesto. Ma sai, perché tu sai tutto di me, che quello sbuffare serve a coprire l’eccitazione evidente che mi dà la tua richiesta. Il tuo essere sfrontata, il tuo seguire l’istinto. Allora vado. Scelgo. Tento.
Quei due, al tavolo in fondo mi sembrano simili a noi, che non siamo simili a nessuno. Non tanto per l’aspetto, come potrebbe essere, ma per la serenità nei loro sguardi. Invento una scusa poco credibile “non ci siamo già incontrati noi?” per cominciare a parlare del ristorante, a chiedere da quanto lo frequentano, a dire la mia sul cibo, sull’arredamento. Cazzate, solo per poter dire uniamo i nostri tavoli, se non vi dispiace. Non gli dispiace, sono cordiali. Quaranta, forse quarantacinque, entrambi. Vestiti sportivi, casual, come si può definire meglio? Parlo, mi presento, ci presento. Disquisisco di città, di campagna, di coppie senza figli (simili, sì, chi lo avrebbe mai detto?). Ordino una bottiglia ulteriore, specificando che saranno ospiti. Stasera saranno ospiti. Chiedo, da quanto siano in coppia. Introduco. Parlo di noi, che lo siamo da un po’ ma che lasciamo che ciascuno di noi viva la sua vita, quando ne sente l’esigenza. Butto lì la frase fatta che lasciare l’altro libero solidifica il rapporto. L’importante è la condivisione delle sensazioni, la sincerità. Non l’esclusività. Condivisione, insisto. Verso da bere a lei, poco trucco, capelli sciolti, scuri. Sguardo sincero e vivo. Attraente. La immagino in altri contesti, mi attira. Verso da bere a lui, abbronzato, colori scuri, intensi. Meno loquace, ma ironico. Sta al gioco, su ogni argomento.
Ora tocca a te, al tuo gioco. Ora puoi cominciare il balletto della provocazione, quella sottile arte che mi fa venire il cazzo duro, non appena ne intravedo l’ombra nei tuoi occhi caldi. Fammi giocare, falli giocare. Potrebbe essere una buona serata.
Mi ecciti, con le tue idee. Devo solo seguirle, darti retta.
Prima che tu possa cominciare a giocare glielo chiedo, quasi d’improvviso: “domani sera siete impegnati? Potreste venire a cena da noi, se vi fa piacere”. Mi guardi, sorridi, annuisci con lo sguardo; lo vuoi.
Lei chiede solo un minuto per chiamare un’amica e disdire il mezzo impegno che aveva, lui ne sarebbe felice e si alza per andare in bagno. Siamo soli al tavolo, per qualche momento. Hai lo sguardo che trasuda eccitazione. Sei in quello stato che mi fa impazzire.
Sfiorandoti una coscia ti sussurro all’orecchio “gioca ora, come sai fare solo tu, stasera ti voglio scopare al pensiero di cosa sarà domani. Con le tue idee più perverse tra di noi”
Sorridi, mi fai cenno di sì. Bevi un sorso di vino, mi premi la mano sulla gamba. Quando rientrano al tavolo li guardi, poi guardi me. E mi lasci entrare in quello sguardo, pieno di amore e desiderio, pieno di sapore di sesso.

Lei
Eccoli rientrare, quasi contemporaneamente. “Ancora un po’ di vino?” La serata è giovane, l’atmosfera giocosa, piacevole la condivisione di pasti, risate, corpi. C’è sempre quel confine poco nitido in cui non sai mai se puoi oltrepassare, ma basta una battuta, uno sguardo, un leggero sfioramento per capire se c’è approvazione, concessione, sintonia. Il mio sguardo si rivolge a lei, se le due donne sono complici il più è fatto. Se sono disponibili a cedere il proprio uomo, c’è il via libera.
Gli uomini arrivano sempre dopo, le regine siamo noi. E lei mi guarda, sorride, è un po’ stupita, ma le piace essere stuzzicata. Parla di sé, risponde alle nostre domande, racconta aneddoti divertenti, cerca lo sguardo di lui, ogni tanto gli stringe la mano, qualche volta ci versa il vino nel bicchiere.
Concludiamo la serata e ci scambiamo i numeri di telefono.
“Hai scelto bene, amore. Cucini tu domani sera, vero?”

Tokyo Hotel


Gintoki, non c’entra molto, ma mi è venuto così. Grazie per l’ispirazione, mondo gatto!

Ho sognato di essere in hotel. Quei casermoni enormi, tante stanze, tanti bottoni in ascensore. Che schiacci un tasto e non sai dove ti trovi, non sempre c’è il cartello che indica il numero di piano e ti confondi. Sempre.

Quei pavimenti ovattati, moquette di buon livello, peluria alta e densa che ci si sprofonda. Una carezza piacevole alla pianta del piede, che ha lungo camminato e sopportato il peso delle mie ossa, della mia carne. È come un massaggio, un preludio al lasciarsi andare, completamente. Perché quando mi tocchi i piedi, inevitabilmente chiudo gli occhi e apro un po’ le gambe.

Ormai le chiavi elettroniche credo siano una burla. Una qualunque apre tutte le porte. Chi mi garantisce che siano sicure? Protette per cosa? Vorrei entrare dove più mi aggrada, scegliendo a caso, confondendo come faccio sempre, i numeri delle camere. Ho il 456, il 645, no il 234. Non ricordo. Non chiedermi di memorizzare un numero per 24 ore. Mi è davvero impossibile.

Entro a caso. È un labirinto questo e le porte sono tutte aperte al mio tocco. Poggiare le dita sul pomello e lentamente divaricare l’uscio. Mi accolgono la penombra e i tuoi sussurri. Forse mi stai aspettando? Non cerco chiari elementi riconoscibili, che so, un libro sul comodino, le ciabatte, accanto al letto, la felpa col cappuccio che ho comprato online. Respiro l’odore di camera d’hotel e vengo a te.

Ci sei tu, my dear, in canottiera e mutandine, nonostante faccia parecchio freddo. Sei distesa sul letto con gli occhi socchiusi, mi riconosci e mi chiedi se ho una mela da offrirti. Quei frutti rossi che trovi solo al supermercato bio, talmente finti e lucidi che ti chiedi se possono rimbalzare e rimanere intonsi.

Per non fare rumore mi avvicino al tuo orecchio, non resisto e invece di risponderti qualcosa, ti alito un soffio. Calore per te. Risposta giusta, mi prendi la mano e la posi su di te. Protette in questo luogo ovattato, sbocconcelliamo la mela.

Chissà se qualcun altro si aggiungerà?

Babylon City 


Non ricordo quanto è grosso quel letto, forse due piazze accostate, anche tre, di quelle spettacolari, circondate dai portici, dalla fila ordinata degli alberi che fioriscono in primavera e tu ti volti per catturarne il profumo. Poi intorno  i divanetti, forse per sedersi, appoggiarsi, rilassarsi, come quando ti accomodi per aspettare il tuo turno dal dentista, o per andarti a confessare. Per dire cosa? Sensi unici, doppi, semafori rossi, via libera, incroci, incastri, controviali, contromano, controsenso, in cui non sai mai chi ha la precedenza, favoriamo la circolazione: la massa siamo noi.

È parecchio buio, è difficile aggiungere particolari, tipo il colore della carta da parati, le facce delle persone, l’inesistenza delle finestre, il suono ovattato dei nostri respiri, gli abiti succinti, i petti villosi che sbucano dalle camicie semiaperte e le cinte penzolanti, come code di cane, volpe, attaccate ai plug metallici. Forse vogliono risparmiare sui lampioni?

Sembra un labirinto: le stanze, le scale, le tende, i bagni, la macchinetta dei goldoni e delle cicche. Passo sicuro il mio, nonostante i tacchi alti e sottili, sguardo fiero, decoltè sfacciatamente in mostra. Non sono preparata a tutto ciò, non ho decisamente l’abbigliamento adatto. Vorrei indossare quei vestitini succinti con la cerniera spavalda e la zip che ammicca, ciondola, come se chiamasse a raccolta le dita sottili e precise di tutti quei corpi arrapati.

Tu non mi dai la mano, mi appoggi il braccio lungo la schiena, mi sento protetta. Ti seguirei anche in capo al mondo così. L’esame della patente l’ho sostenuto diversi anni fa, ho studiato il codice della strada, lo conosco a memoria: ogni accensione del motore, una ruga in più.

Guidami le mani sulle cosce delle femmine vicine, accostami ai fianchi di questi maschi allupati, tu dirigi il traffico ed io eseguo alla lettera ogni tuo singolo cenno, movimento, sguardo. Sono pronta a tutto, pur di compiacerti e lo so, oh se lo so, tu mi controlli e mi spii e al tempo stesso stai vagliando tra la folla in circolazione chi vuoi fare tua, mentre ho le fessure occupate, gli occhi chiusi, le spalle inarcate.

Questo è un nostro gioco e alla fine usciremo da qui insieme, mano nella mano, che la strada è ancora lunga e il viaggio è appena iniziato.

Tutti a scuola

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Basta! E’ davvero ora di dare una svolta alla mia vita, così non può continuare: è arrivato il momento di prendere seriamente in considerazione il fatto che devo tornare sui banchi di scuola. Capisco che non sia facile alla mia età riprendere in mano carta e penna e calamaio, ma quando è troppo, è troppo.
Non si può sempre improvvisare, far finta di essere dei veterani e non esserlo: gli altri se ne accorgono, lo capiscono benissimo, a volte sei impacciato, a volte tentenni, sbagli i tempi, sei troppo precipitoso, oppure aspetti troppo e dopo un po’, inevitabilmente, decidono di rivolgersi a qualcun altro, più esperto, professionale, capace: ti mollano lì, con tutta la tua voglia repressa e la tua buona volontà andata a puttane.
Perché ogni dettaglio è importante: il suono, i tempi, l’attesa, il respiro, lo sputo, il dolore, il rossore, la posizione della mano, la schiena inarcata, i fianchi, gli strumenti di lavoro e qui si apre un nuovo mondo, la selezione accurata, la preparazione, le forme, i colori, i materiali, come dosi la forza della mano, l’inclinazione, la precisione.
Basta un colpo dato male e in un istante rischi di rovinare tutto: spezzi l’atmosfera, distrai, innervosisci, fai perdere l’eccitazione, annoi o addirittura provochi dolore. No, no, così non va proprio!
Lo sappiamo tutti: sono i particolari che fanno la differenza ed io voglio essere brava, efficace, competente.
Voglio l’attestato da incorniciare e appendere sopra il letto, firmato e vidimato che dimostri senza ombra di dubbio, nero su bianco che ho studiato alacremente!
Ho deciso quindi di iscrivermi e frequentare una scuola specializzata, con tutta la dovizia e l’impegno necessario, voglio seguire le lezioni di teoria: anatomia, medicina, psicologia, fisica, acustica, chimica e poi mi concentro sulla parte pratica e di approfondimento: devo fare esercizio, tanto esercizio, su corpi diversi, fisicamente differenti, anche con sessioni di gruppo, per essere sempre in grado di gestire ogni tipo di situazione, dalla più basica alla più complessa e articolata.
Da lunedì, perché si inizia sempre tutto di lunedì, con la mente fresca e riposata, mi iscrivo alla scuola svizzera di spanking!

Foto d’identità

Prosegue il tema dell’identità che avevo iniziato da più parti. Ho scoperto che mi piace ricamarci su, tanto che ho fatto un indice, anzi di più ho creato una pagina che raccoglie tutti i post a puntate che ho scritto.

Sono tornata nella legalità. Che noia mortale. Nel giro di 48 ore ho rinnovato la patente e ho rifatto la carta d’identità. Ho avuto a che fare con la burocrazia, io che la fuggo come la peste, che guardo con stupore e stordimento chi ha il coraggio di accantonare il proprio grisbi alle Poste, che ho un conto online dalla notte dei tempi, che non so cosa sia un libretto degli assegni e non ho idea dei tempi e dei modi per andare a un CAF a fare la dichiarazione dei redditi. E non parlarmi di 730 che ho l’angoscia perchè mi si è cimito il Mac, dove salvavo diligentemente i print delle immagini dei miei PIN per entrare nel sito dell’INPS e ora come per magilla devo seguire l’iter controverso e labirintico per il recupero password. Mio Dio, sono fritta.

Però eccoli lì scintillanti e sudati i documenti che provano la mia esistenza sul sistema solare, recuperati in soli cinque minuti per quanto attine il discorso patente e in 4 cazzo di ore all’anagrafe per il documento d’identità. E quando finalmente leggo il match tra il codicillo stampato sul bigliettino della macchinetta e quello che compare a monitor, ed io avanzo baldanzosa allo sportello con il vetro blindato (sono sicura siano soldi pubblici spesi bene), mostrando foto, passaporto, cash e denuncia di smarrimento ai carabinieri, la nostra dipendente statale, serafica e cinica sentenzia che le foto non vanno bene perchè stampate su carta straccia. Ma come? E’ carta fotografica, esattamente la foto che avevo usato 5 anni fa, e ti mostro saccente la fotocopia del documento ormai perso o abbandonato, importanza non ha. Ma non basta tutto ciò a convincere la megera che mi spara alle terribili macchinette mangia 5 euro che mi dona devastante foto della mia faccia post sbornia di 48 ore fa, struccata e in ciabatte, che tanto vado solo all’anagrafe, chi vuoi che mi veda. Per cui ho finalmente l’attestato con una foto improponibile, che passerò sottobanco e occhio basso, sperando non ci si soffermi troppo.

Per riprendermi da tutto ciò, fatemi fare qualcosa di tremendamente illegale, right now.

Cinema d’essai


Scrivere con Pornoscintille è sempre molto stimolante. Attenti a non confondervi con gli spettatori di questo cinema d’essai!

Avevo letto più recensioni e quel film mi ispirava molto, ma non avevo trovato nessuno con cui andare al cinema. Alla fine avevo deciso di andarci da sola. Non c’era molta gente in giro quella sera e dopo una breve coda alla cassa, avanzavo verso la poltroncina numerata che mi era stata assegnata.

Ti accorgi che quello non è un cinema comune: entra una donna altissima, muscolosa, con un cane al guinzaglio. Strabuzzi gli occhi nel buio del cinema e ti accorgi che il cane, invece, sono io, seminudo e col collare.
Pianti gli occhi negli occhi di lei, quasi per sfida. Lei ti valuta; tu valuti lei. Poi prende una decisione: viene a sedersi accanto a te e io mi accuccio ai suoi piedi. Per un po’ guardiamo il film. Tu, a cui il coraggio non è mai mancato, le posi una mano sulla coscia più vicina a te e lentamente la fai salire su, fino a infilarla sotto la sua gonna. Le tue dita trovano la sua fica già bagnata. Lei dà uno strattone al guinzaglio: sollevo la testa in attesa di ordini e seguo il suo sguardo che va in direzione delle tua fica. Mi metto in ginocchio davanti a te, fra le tue cosce, e lecco i tuoi piedi, con particolare insistenza sul collo del piede. Poi risalgo con la lingua fra le tue cosce, fino ad arrivare ad annusarti gli slip. Ho un’erezione immediata. Sollevi il bacino, sposti gli slip scoprendo la fica e mi premi con forza la nuca fra le cosce. Io, diligente, obbediente, ti lecco fra le labbra, sul clitoride gonfio, lo mordo leggermente. Mi stringi le cosce intorno al collo.

Non capisco se sei un uomo o un cane. Sento il naso bagnato, qualcosa di molto peloso che mi solletica la fica fradicia e il tintinnio del collare che sbatte contro la poltroncina del cinema. Mi pare di essere in un sogno, cerco di ricordare se ho bevuto o fumato prima di arrivare, ma mi pare di no. Sono molto confusa, ho la vista annebbiata, ma soprattutto sono eccitata all’idea che sia un cane a leccarmela per bene. Mi godo il trattamento inaspettato mettendomi comoda, appoggio i tacchi sulla tua schiena e le mie gambe nude avvertono il pelo della tua schiena. Forse sei davvero un cazzo di animale? Ma che importa, dopotutto?
La padrona sembra gradire le mie attenzioni e penso che forse lei vorrebbe che le restituissi il favore. Del resto il cane, cioè tu, sei suo, o no? Per cui mi riprometto di impegnarmi su di lei, non appena tu hai finito il tuo dovere.

Continuo a leccarti diligentemente. L’odore della tua fica eccitata mi rende famelico: mi nutro dei tuoi umori. I tuoi tacchi sulla schiena mi fanno impazzire. Mi sento umiliato e al tempo stesso orgoglioso di essere utile alla mia padrona e di riuscire a darti tanto piacere.
La tua mano affonda fra le sue cosce. Da come la muovi, almeno tre dita le sono nella fica. Sembra che le stia scavando dentro. Lei si sbottona la camicia e si strizza un seno. Gemete entrambe.
Aspiro il nettare che sgorga dalla tua fica continuando a succhiare, a leccare e a spompinarti il clitoride. Stringi le gambe intorno al mio collo, quasi soffocandomi.
Ormai siete partite. Lei mi afferra per le orecchie e si mette a cavalcioni su di te. Spinge giù la mia testa e strofina la fica sulla tua.
Io resto in mezzo, le vostre fiche sovrapposte si strusciano, mentre lei ti morde i seni e tu il collo, io lecco il culo ora a te, ora a lei.
C’è qualche altro spettatore nel cinema a cui ormai la poltrona scotta sotto il culo.

Forse il film proiettato non è così interessante, forse noi siamo uno spettacolo migliore, non saprei, sta di fatto che le altre persone in sala si alzano e si avvicinano a noi. Sento i loro occhi e il loro fiato sui nostri corpi avvinghiati, e pian piano anche le loro dita che si insinuano con partecipazione.
La tua padrona alza per un breve intervallo la testa dalle mie tette e sibila una parola incomprensibile, poi torna a dedicarsi a me. Io non capisco che cazzo ha detto, ci rimugino su e poi mi viene un’illuminazione. Ha detto: “Go!”. “Che vorrà mai dire?” mi chiedo. Poi capisco che è un segnale: ha dato il via agli altri clienti che, come in una danza al rallentatore, si incastrano a noi.

Vengono su di voi, vi baciano, qualcuno inizia a leccarle le tette, un altro si fa coraggio, tira fuori il cazzo e glielo struscia sul culo. Poi tu, perversa, indichi me a qualcuno di loro, il più grosso o meglio, quello che lo ha più grosso. Mi afferra per i fianchi, mi allarga le natiche e mi punta il cazzo sull’ano. Ci sputa sopra poi gradualmente me lo spinge dentro. Voi vi aggiustate sulle poltrone per accogliere altri cazzi. Tenete ancora incollate le bocche, ma solo quelle, e due degli spettatori strusciano i loro cazzi sulle vostre rispettive fiche, fino a quando voi, stufe di giocare, li afferrate e ve li spingete dentro.

Incliniamo la schiena e ci facciamo stantuffare per bene. Ogni tanto qualcuno si toglie, ma subito qualcun altro lo sostituisce, come una danza, perfettamente sincronizzati. Con la coda dell’occhio ti guardo, protettiva, voglio che tu goda e stia bene. Intanto lo schermo trasmette il film, incurante di questo groviglio armonico di corpi.

Infatti godo e sto bene: un cazzo enorme mi riempie il culo e un altro la bocca; per sovrammercato vedo le vostre fiche a pochi centimetri dal naso, riempite a loro volta da cazzi che vanno e vengono, sborrano, escono e vengono rimpiazzati da altri freschi. E ciò che mi fa sentire meglio di tutto è il tuo viso indulgente che mi guarda, carico di comprensione e che mi fa sentire protetto. La mia padrona mi accarezza la nuca, mentre succhia un cazzo con dignità da regina.

All’improvviso si alzano le luci. Il film è finito. Lentamente ci ricomponiamo e torniamo a casa. Chissà cosa c’è in programmazione domani? Potrebbe andar bene finanche un film di Godard.


Aveva 50 anni

  
Aveva circa 50 anni, non sono mai stata brava a capire l’età delle persone. Non era particolarmente curata, anzi, ma il suo ruolo non lo richiedeva per nulla, per cui molto spesso si presentava in tuta, con un cappello di lana in testa che teneva anche in casa, le t-shirt rammendate, i capelli con la ricrescita, niente monili e anche un accenno di puzza di aglio. Era forte e muscolosa, l’esercizio fisico che faceva ogni giorno, le aveva modificato il corpo. Aveva gli occhi azzurri e un viso che faceva intuire la provenienza slava.

Lavorava per me da tempo immemore, aiutandomi a gestire la mia grande e impegnativa casa, su due piani, col terrazzo, le scale, il tetto, i bagni, la cucina con l’isola, la cabina armadi, il sottotetto. Era molto brava, attenta, premurosa. Era una di famiglia, qualcuno di cui potersi completamente fidare.

Quel pomeriggio ci trovammo a fare due parole nella mia camera da letto, tra una trapunta in mano e uno stendino fitto, fitto di robe appese. Io non ricordo esattamente di cosa stessimo parlando, ho la mente offuscata, ho i ricordi che si sovrappongono e mi ingannano. So solo che con un gesto semplice, rapido, sconvolgente, si alzò la felpa per mostrami di non portare il reggiseno.

Rimasi di sasso. Ero lì, nella mia casa, ad osservare attonita quel seno bellissimo, che attento mi scrutava roseo. Un pezzo di carne mai neanche lontanamente desiderato, che all’improvviso mi puntava fiero.

Senza una parola ci guardammo, perdendoci nei nostri occhi azzurri. Se avessi volto lo sguardo altrove, sarei stata certa che i fatti successivi sarebbero stati diversi. Ma io ero lì, che la osservavo e con quel gesto acconsentivo. Dicevo sì alle sue mani, alla sua bocca, alla lingua bagnata che mi percorreva le cosce, che io aprivo, divaricavo, come se non avessi aspettato altro negli ultimi quarant’anni.

Non ricordo quanto tempo impiegammo per considerarci soddisfatte, ma una cosa era certa: non vedevo l’ora che arrivasse domani.

Promiscuità


Ho imparato l’anatomia del tuo corpo: le linee, gli incavi, i buchi, le protuberanze, i muscoli, le escrescenze, il tuo odore, il tuo profumo, il tuo sapore. Come ti muovi, cosa ti piace, cosa cerchi, cosa ti imbarazza. I tuoi sorrisi, il tuo sguardo, le tue frasi interrotte.

Ho preso appunti, diligentemente, come mi piace fare. Come a scuola. Ho segnato ogni giorno i punti chiave da memorizzare. Procedo per schemi, io. Ho focalizzato le nostre esigenze, ho tracciato le curve, ho composto le tabelle.

Non so tutto di te, mi serviranno altri anni, ma almeno il diploma l’ho preso. Ne sono certa. Non sono l’unica ad averlo conseguito, questo lo so, ma non mi importa per nulla, non sono gelosa e l’autostima non mi manca.

Ora sono pronta, siamo parati. C’è un mondo da esplorare ed io lo voglio fare con te. Una voragine che mi attira, come le sirene con Odisseo formidabile. Un percorso da intraprendere, tempestoso, che mi eccita, che mi infuoca.

Ti riconoscerei tra mille, anche al buio, nella penombra dei corpi aggrovigliati, catene, incastri di pelle e muscoli, tra i fiati intrecciati, le mani allungate, i permessi richiesti ed accordati, gli assensi, gli accessi, le aperture, le disponibilità concesse a sconosciuti mascherati dalle luci strobostopiche.

C’è qualcosa che mi affascina, che mi chiama, che mi porta a desiderare tutto ciò. Fa parte di me.
Me ne sono resa conto all’improvviso, come quando hai i pezzi del puzzle davanti e non hai idea della figura che si comporrà alla fine. Quella prospettiva dall’alto che aiuta e ti permette di avere una visione a lungo termine, della tua vita. Piccoli passi che compongono un viaggio speciale, il nostro.

È andata così: io davanti a te, con l’entusiasmo e il desiderio struggente e primordiale di provare qualcosa di nuovo, diverso. Una svolta alle nostre vite. Mi guardo indietro e osservo le curve, i tornanti che ho tracciato per noi. Sempre.

Ode al sacco

   
Per il progetto #zozzolerci lanciato da Ali di velluto e Ysigrinus,  aggiungo un mio piccolo contributo.

Ringrazio Ali di velluto per il disegno bellissimo.

Dico gatto.

Non dico gatto se non ce l’ho nel sacco.

Cerco il sacco.

Sacco in latex, non ce l’ho.

Sacco serio neanche.

Ma ho un’urgenza, una tremenda fretta, anzi abbiamo.

Vado in cucina a cercare un surrogato, un sostituto. Cosa trovo?

Ecco! Ho la pellicola trasparente. Ne ho comprata a pacchi.

Sono andata al supermercato e ne ho riempito il carrello.

Spiega la plastica morbida e sottile, appiccicosa, che comprime e non fa respirare.

Srotola, srotola con attenzione. Avvolgimi dentro, non sono un panino, si, sono il tuo panino.

Scegli tu cosa lasciare fuori, un pezzo di carne a scelta, la pelle, una protuberanza, una fessura, un buco, il baratro, le montagne, le colline, un ramo, la radice.

Mi piace un sacco.

Non riesco a liberarmi, mi sento una mummia alla tua mercè.

Mi affido a te e la temperatura un pò si alza. La plastica mi fa sudare, mi costringe, sento le tue dita che mi toccano, che premono, ma non mi sfiorano veramente.

Fa caldo, molto caldo, chiudo gli occhi: dieci sacchi per te se indovini a cosa penso!

 

Cucù


Apro la porta.

E ci sei tu in cannotta bianca a leggere costine. Ti segna i pettorali, ti esalta le spalle, ti copre quella pancia perfetta che ti ritrovi, dove amo appoggiare la testa. Per ore.

Hai i jeans, una cassetta per gli attrezzi, una matita infilata sull’orecchio e mi chiedi cosa c’è da riparare. La lavatrice, ecco, per di qua.

Apro la porta.

E ci sei tu in giacca e cravatta, in completo grigio ferro e camicia. Occhiali da sole e cinta di cuoio che si intravede, ma dice tutto. Zainetto morbido scuro da manager rampante e ti scusi perché sei in ritardo alla riunione.

Apri il portatile e non posso fare a meno di notare le tue mani nervose e sensuali. Illustrami il progetto, prego.

Apro la porta.

E ci sei tu con lo stetoscopio al collo, il camice semiaperto e le ciabatte mediche. Hai gli occhiali da vista, uno sguardo preoccupato e mi esorti a sdraiarmi sul lettino. Sono malata e mi vuoi curare. Tu.

Mi osculti qui, dottore. Le pare grave?

Apro la porta.

E ci sei tu in calzoncini, polo bianca, scarpe da ginnastica e racchetta da tennis in mano. Saltelli sul posto, sei un pò sudato e mi chiedi di fare una partita insieme. Mi vuoi stracciare, non credo sia difficile visto che non so giocare a tennis. Servi tu per primo?

Apro la porta.

E ci sei tu, con gli stivali sporchi di terra, la camicia scozzese, con le maniche arrotolate, i guanti da giardinaggio e un piantino in mano. Mi chiedi dove puoi attaccare la pompa per bagnare il giardino. Really?

Apro la porta.

E ci sei sempre tu, che mi fai ridere, che mi fai sognare e reinventi ogni volta te stesso, per stupirmi, per farmi innamorare, più di quello che fai ogni giorno.

Apro la porta e ci sono io che ti aspetto e come ogni sera ho voglia di giocare con te.