Tokyo Hotel


Gintoki, non c’entra molto, ma mi è venuto così. Grazie per l’ispirazione, mondo gatto!

Ho sognato di essere in hotel. Quei casermoni enormi, tante stanze, tanti bottoni in ascensore. Che schiacci un tasto e non sai dove ti trovi, non sempre c’è il cartello che indica il numero di piano e ti confondi. Sempre.

Quei pavimenti ovattati, moquette di buon livello, peluria alta e densa che ci si sprofonda. Una carezza piacevole alla pianta del piede, che ha lungo camminato e sopportato il peso delle mie ossa, della mia carne. È come un massaggio, un preludio al lasciarsi andare, completamente. Perché quando mi tocchi i piedi, inevitabilmente chiudo gli occhi e apro un po’ le gambe.

Ormai le chiavi elettroniche credo siano una burla. Una qualunque apre tutte le porte. Chi mi garantisce che siano sicure? Protette per cosa? Vorrei entrare dove più mi aggrada, scegliendo a caso, confondendo come faccio sempre, i numeri delle camere. Ho il 456, il 645, no il 234. Non ricordo. Non chiedermi di memorizzare un numero per 24 ore. Mi è davvero impossibile.

Entro a caso. È un labirinto questo e le porte sono tutte aperte al mio tocco. Poggiare le dita sul pomello e lentamente divaricare l’uscio. Mi accolgono la penombra e i tuoi sussurri. Forse mi stai aspettando? Non cerco chiari elementi riconoscibili, che so, un libro sul comodino, le ciabatte, accanto al letto, la felpa col cappuccio che ho comprato online. Respiro l’odore di camera d’hotel e vengo a te.

Ci sei tu, my dear, in canottiera e mutandine, nonostante faccia parecchio freddo. Sei distesa sul letto con gli occhi socchiusi, mi riconosci e mi chiedi se ho una mela da offrirti. Quei frutti rossi che trovi solo al supermercato bio, talmente finti e lucidi che ti chiedi se possono rimbalzare e rimanere intonsi.

Per non fare rumore mi avvicino al tuo orecchio, non resisto e invece di risponderti qualcosa, ti alito un soffio. Calore per te. Risposta giusta, mi prendi la mano e la posi su di te. Protette in questo luogo ovattato, sbocconcelliamo la mela.

Chissà se qualcun altro si aggiungerà?

Ricomincio venerdì 


Dalle vacanze son tornata giovedì sera a mezzanotte e il giorno dopo sono andata a lavorare. Sì, di venerdì.

Ho passato la mattinata a rispondere a colleghi che mi chiedevano: ‘Ma torni di venerdì?’, come fosse un’assurdità, un’idea balzana, un capriccio senza ragione. Come se io fossi stacanovista o non avessi di meglio da fare. Scusate, ragazzi, son fatta così: la terra che sta tra qualcosa che finisce e qualcosa che deve iniziare, mi intristisce, mi deprime. Preferisco buttarmi, bando alle ciance, non voglio pensieri, devo fare.

Poi iniziare venerdì significa farlo per gradi, riordinare le idee. Leggere le mille mail ed evaderle, per quanto possibile, senza l’affanno del lunedì. Che Vasco non mi è mai piaciuto, ma qualche volta ha avuto ragione.

Fare il punto su cosa mi aspetta a settembre, a ottobre. Mesi importanti, ricchi di eventi, palcoscenici, occasioni uniche, piccoli passi in quello che voglio chiamare carriera. Che fa un poco ridere, e ricorda corriera, ma poi mi dà soddisfazione e mi fa stare bene.

Un rientro soft,  qualcuno mi ha detto, anche se poi dalla chat tutti vedono che sei tornato online e quindi sei disponibile, di nome e di fatto.

Rigorosamente in bianco vestita, come tutti gli anni, per far risaltare l’abbronzatura delle gambe, delle braccia e delle spalle. Che dura circa quattro giorni, poi ritorno al mio pallore autunnale. Ahimè.

Che posso salutare le mie piante ormai agonizzanti, perché l’unica collega disponibile a bagnare non ha il pollice verde. Credo ce l’abbia marrone, esattamente il colore delle foglie rinsecchite del mio finto bonsai. Però è stata gentile, mi ha persino lasciato un bigliettino pieno di cuori. Più tenera che giardiniera.

Che le colleghe amate sono ancora in ferie e quindi la pausa caffè la passi a lavorare, ma in fondo non hai neppure cosi voglia di andare a raccontare come sono andate le vacanze.

Sono finite, pensiamo alle prossime.

Le manie delle manie (Senso: tatto)

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Anche tu trovi quell’irrefrenabile desiderio di toccare, socchiudendo un poco gli occhi, lasciandoti un pò andare, allargando leggermente le narici, un sospiro rilassato a pieni polmoni, per sentire una superficie, un velluto, un elemento materico: il profilo arrotondato di una cover di plastica morbida, il pallone grutoluto che rimbalza così bene, che lo lanci e la presa è stucchevolmente perfetta, paf!, il vellutino di un colletto old style, rasato e verde smeraldo, il ciuffo di pelliccia, forse sintetica perché di cane mi fa parecchio impressione, la lana mélange grezza, preparata coi ferri, quelli grossi, dritto e rovescio, che da piccola ci avevo provato e imparato, ma non ero per niente buona, con le mani e tutto il resto, l’albume che cola nella ciotola piena di farina sbuffante, ho deciso di fare una torta, costi quel che costi, e poi mi accorgo, alla fine, che mi manca un ingrediente in casa, eh, no, non si può fare uno strappo, le ricette non si improvvisano, si seguono alla lettera, il liscio della fettuccia di raso, come quelle delle bomboniere, che odio, e appena ne ricevo una, è già dimenticata, la seta grezza di una camicetta parecchio scollata, che se non è di Zara, è morbida e affettuosa?

Te lo chiedo solo perché io lo faccio spesso. Non ci penso su, la mano scatta e tende per catturare quell’istante. E non importa se pare una mania, se è una mania. A volte ti appropri di un oggetto, perché è la materia che ti chiama. Molto primitivo, primordiale. È spontaneo come questo scrivere, tutto questo slancio di getto a voler comporre parole e post, come se ci si volesse improvvisare qualcosa che non si è.

Le vacanze stanziali in riva al mare mi fanno tristezza, mi deprimono terribilmente. Non sono fatta per sedermi sotto l’ombrellone e osservare la sabbia, l’acqua, le barche e i vicini molesti. E non sto parlando di settimane, ma di ore. Ma a volte succede, anche perché la pigrizia ti coglie e se lasci scegliere ad altri, puoi soltanto accettare di buon grado il menù all inclusive.

Della bisessualità e altre seghe mentali 

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Leggevo un articolo dell’Internazionale di circa un mese fa che rifletteva sul fatto che sono anni che la società racconta alle donne che la strada giusta è un matrimonio eterosessuale e poi figliare. Non so se diceva proprio così, ma questo è il messaggio che ho colto. E non venirmi a dire di citare le fonti, che questa non è un’opera scientifica, ma un blog di seghe mentali.

Comunque, dicevo, io ho colto questo messaggio.

Ora, io non voglio scendere nei dettagli e raccontare troppo i fatti i miei, anche perché non è questo lo scopo di questo spazio, però sta cosa mi fa riflettere. Io che cerco di affrancarmi dagli stereotipi di genere, ecco, io per prima ho sentito la necessità di fare delle scelte, scelte di vita, mica cazzi, perché in qualche modo sentivo il peso e il giudizio della società. Ora non voglio scoprirmi lesbica a 40 anni, perché non lo sono e l’apparato maschile, ma chiamiamolo pure cazzo, mi piace assai, certo è che se non avessi subito l’influenza della società, eccetera eccetera, ecco come minimo avrei desiderato, diciamo 25 anni fa, fare esperienze con il mio stesso sesso. E forse come me, mille altre donne, chissà. Che a me sembra normale e palese questo discorso, mentre invece alle più magari no. Perché io cerco sempre di capire se davanti a me ci può essere una donna che condivida questo mio stesso desiderio e non la trovo mai. Tutte a dire, no grazie, con le donne no.

Allora i motivi possono essere tanti o forse semplicemente io non piaccio (ma mi pare impossibile, perbacco). Beh certo non è detto che uno, anzi una voglia giocare a nascondino con me, il gioco della bottiglia, indovina dov’è la coniglietta, ma alla fine credo che se avessimo più apertura mentale, le bisessuali (almeno dichiarate) sulla faccia della terra sarebbero il triplo e io non avrei tutta questa difficoltà a trovare un’amica che la pensi come me.

Ecco, non voglio sembrare quella che usa il blog per raccattare fica (ma vah!), questo era solo un pensiero semiserio di un periodo semiriflessivo.

L’incontro

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Mi hai detto che finalmente vi sareste incontrati. Ero contenta che tu avessi combinato proprio quando io ero fuori due giorni per lavoro.

Mi avevi mostrato le sue foto. Era bella. Due occhi così. Un sorriso meraviglioso. La trovavo decisamente sexi. Immaginavo il suo corpo, proseguimento di quegli scatti di viso, che chiamano selfie. Che io vengo sempre malissimo, mentre lei, lei era bella. Avevo visto altre foto che la ritraevano e avevo composto, nel puzzle della mia testa, un corpo armonioso e desiderabile. Forse non avevo visto solo lei, ma tante donne, tutte quelle con cui ti divertivi a chattare, parlare, scrivere, scambiare foto. Ed ora avevi deciso di incontrare una di queste.

Mi hai parlato di pausa pranzo, un ritrovo sfuggente in mezzo alla folla. Non vi eravate mai visti di persona. Almeno è quello che mi avevi raccontato tu. Chissà se era davvero così.

Oppure era solo una di una ennesima volta? Un’ora a disposizione, minuti contati, sessanta. Per appoggiare la tua mano su quelle cosce bianche. Per sfiorare il mento su quelle spalle scoperte. Per intrufolare le mani in mezzo a lievi pelurie rasate.

Con l’eccitazione che scorre lungo la schiena. Con me lontana. Con la possibilità di spostarsi inosservati a casa nostra. 24 ore di tempo. Un letto ampio, senza lenzuola inutili. Solo un telo teso per attorcigliarsi e sudare.

Con la mia approvazione. Con la mia eccitazione. Non voglio guardare, non voglio assistere. Voglio racconti succinti, appena accennati. L’odore estraneo sul mio cuscino, forse anche un capello abbandonato ai piedi del letto.

Com’è andata? Era brava? Si è inginocchiata come nella migliore tradizione di Tumblr? Oppure le piaceva comandare, afferrarti tra i capelli e spingerti forte in mezzo alle sue natiche, per far lavorare la tua lingua nel suo buco del culo? Come l’hai scopata?

Aspetta, aspetta.

Accendo un’altra sigaretta e mentre mi sussurri ancora qualche dettaglio, mi passo la mano sul seno e chiudo gli occhi.