Porgimi quel vaso trasparente dell’Ikea.
Non ho bisogno di proferir parola. Basta un cenno, il sopracciglio inarcato e lo sguardo puntato su quel pezzo di vetro allocato in credenza. Che lo comprammo insieme, lo scegliemmo a caso, tra mille complementi d’arredo in fila, come soldatini inutili, pronti alla morte. Prezzi stracciati, saldi di primavera, ormai sfiorita.
Consegnamelo, avanti, anche se sono incazzata nera e non ti pare proprio il momento di mettere a bagno delle rose.
Dammi quel vaso, qui e ora. Non c’è tempo di discutere, negoziare, trattare. Qui si tratta di eseguire senza resistere, senza opporsi.
L’abbiamo già visto questo film: ti toccherà raccogliere i cocci schizzati per tutta la casa, è inevitabile e non serve a niente provare a farmi ragionare. Parecchio inutile divagare, far finta di niente, distrarre i miei pensieri. Parlare di domani, di dopodomani, di lunedì. È tutto superfluo, siamo a un capolinea dichiarato.
E allora che accada, questo disastro annunciato. Il tonfo cristallino rimbomba all’unisono. Riecheggia e tappa le nostre orecchie stufe, ormai sorde a qualsiasi sforzo di venirsi incontro.
Il vaso è rotto, spezzato, irrecuperabile e i vetri per terra finalmente giacciono inermi. Finalmente, si.
Le rose non ci sono, dove sono finite?
Sono rimaste attaccate alla pianta, trapiantata anni fa, quando c’era ancora qualcosa da dire, da fare, da provare. Quando eravamo felici, liberi da fardelli, ormai talmente gravosi che non riusciamo più a raddrizzare la schiena e ci muoviamo ingobbiti come zombie, cerchiati senz’ossa.
Il frastuono del vaso scagliato e delle nostre parole sanciscono la fine della guerra.
E tu sei lì, silenzioso, che ti sfili le calze con eleganza e inizi a danzare sui frammenti luccicanti. Ti muovi piano, senza guardare il sangue che lentamente gocciola dai tagli provocati, come una penitenza, una reiterata richiesta d’attenzione nei miei confronti. E’ un gioco, io lo capisco, ma io mi sono stufata. Ciao.