Babylon City 


Non ricordo quanto è grosso quel letto, forse due piazze accostate, anche tre, di quelle spettacolari, circondate dai portici, dalla fila ordinata degli alberi che fioriscono in primavera e tu ti volti per catturarne il profumo. Poi intorno  i divanetti, forse per sedersi, appoggiarsi, rilassarsi, come quando ti accomodi per aspettare il tuo turno dal dentista, o per andarti a confessare. Per dire cosa? Sensi unici, doppi, semafori rossi, via libera, incroci, incastri, controviali, contromano, controsenso, in cui non sai mai chi ha la precedenza, favoriamo la circolazione: la massa siamo noi.

È parecchio buio, è difficile aggiungere particolari, tipo il colore della carta da parati, le facce delle persone, l’inesistenza delle finestre, il suono ovattato dei nostri respiri, gli abiti succinti, i petti villosi che sbucano dalle camicie semiaperte e le cinte penzolanti, come code di cane, volpe, attaccate ai plug metallici. Forse vogliono risparmiare sui lampioni?

Sembra un labirinto: le stanze, le scale, le tende, i bagni, la macchinetta dei goldoni e delle cicche. Passo sicuro il mio, nonostante i tacchi alti e sottili, sguardo fiero, decoltè sfacciatamente in mostra. Non sono preparata a tutto ciò, non ho decisamente l’abbigliamento adatto. Vorrei indossare quei vestitini succinti con la cerniera spavalda e la zip che ammicca, ciondola, come se chiamasse a raccolta le dita sottili e precise di tutti quei corpi arrapati.

Tu non mi dai la mano, mi appoggi il braccio lungo la schiena, mi sento protetta. Ti seguirei anche in capo al mondo così. L’esame della patente l’ho sostenuto diversi anni fa, ho studiato il codice della strada, lo conosco a memoria: ogni accensione del motore, una ruga in più.

Guidami le mani sulle cosce delle femmine vicine, accostami ai fianchi di questi maschi allupati, tu dirigi il traffico ed io eseguo alla lettera ogni tuo singolo cenno, movimento, sguardo. Sono pronta a tutto, pur di compiacerti e lo so, oh se lo so, tu mi controlli e mi spii e al tempo stesso stai vagliando tra la folla in circolazione chi vuoi fare tua, mentre ho le fessure occupate, gli occhi chiusi, le spalle inarcate.

Questo è un nostro gioco e alla fine usciremo da qui insieme, mano nella mano, che la strada è ancora lunga e il viaggio è appena iniziato.

Si può imparare a essere creativi?

Non mi sono mai considerata tale. Io ero quella che a scuola si metteva i Closed e aspirava alla felpa Best Company, che ammirava mia sorella che si faceva il ciuffo di capelli rosa, che tracciava i margini sui fogli protocollo delle verifiche per essere più ordinata. Quella che seguiva le regole, niente colpi di testa, la riga da una parte, capelli a caschetto, a letto alle 8.30, dopo il carosello, niente Drive In, porca miseria. Che impazzivo quando il tema era libero, perché non sapevo che pesci pigliare, che ogni cosa ha un suo posto e viceversa. Che si presentava ai colloqui in tailleur blu scuro e ventiquattr’ore a 20 anni, manco ne avessi avuto 40.

Ho però avuto la fortuna di vivere per più di un decennio a stretto contatto con veri creativi.

Gente che tu gli dai un la, un brief in gergo tecnico, loro ci pensano e poi tornano con le proposte creative. Che tu poi impacchetti, ci appiccichi un prezzo e le presenti al cliente belle infiocchettate e le difendi come fossero tue, perché ci credi e le hai assorbite per osmosi.

Ho respirato quell’aria frizzante, in una agenzia di pubblicità del centro urbano, circondata da un giardino pieno di fiori, quando ancora si poteva fumare nei locali pubblici e la mia collega smoccolava sigarilli, seduta alla scrivania.

Che i creativi sono gente strana, fantastica, ma a volte si ritengono degli dei in terra e per averci a che fare devi infilarti i guanti bianchi e abbassare la testa, ma per certi versi sono affascinanti, sono unici e ne subivo il fascino.

E ho imparato, davvero ho imparato, perché per nascita non lo ero, ad avere gusto critico, ad associare i colori,  a valutare i pesi, adottare regole non scritte di scrittura, a godere del brain-storming, a sparare cazzate e poi a normare le idee, a scegliere il font appropriato, a immaginare, a partorire qualcosa che sei in grado di proteggere, a scovare quell’elemento che stona, che aggiustato rende tutto più armonioso e unico.

Un bagaglio sfaccettato e intenso, piacevole da portarsi dietro.

Come una tela

Non ci avevo mai pensato. Davvero. Come quando sei lì che ogni sera fai una pennellata su una tela, al buio, e poi dopo un mese accendi la luce e scopri un disegno. Baffo dopo baffo, nero su bianco si compone qualcosa che ha senso. Riconoscibile. Però devi accendere la luce. Fare un passo indietro. E poi apprezzare.

Ho realizzato di vivere di manie totalizzanti e assolute che durano manciate di giorni, mesi, anni. Iniziano senza un motivo. Diventano ossessive. Muoiono improvvisamente. Il giorno in cui decido che mi hanno nauseato, stufato, consumato.

La mia vita è una ondata di manie cicliche monotematiche che nascono, vivono, collassano, vengono sepolte senza lacrime, sotto terra e infine dimenticate.

Strano per una che pensa di essere razionale e coi piedi per terra. Curioso che non l’abbia mai notato. Mi è stato detto da qualcuno che mi conosce bene. Ed è stata una rivelazione, una cazzo di epifania che Freud manco a Natale. Una pietra scagliata al mio finestrino, che mi ha svegliato temporaneamente dal torpore, mentre sono in viaggio su questo treno a vapore.

Poi mi sono seduta e ho cercato di ricordare a ritroso che cosa mi aveva assorbito per giorni. Come lo scottex con la frittura di pesce. Che non la faccio mai. Perché non la digerisco. Perché odio l’unto sul gas. Avevo visto che la suocera di mia sorella ricopriva il piano di cottura con la carta stagnola. L’avevo considerata una pura genialità. Ma l’alluminio è caro e quello è uno spreco inconcepibile per me, per cui non ho mai neppure provato.

E sai di cosa sto parlando? Di cose assurde, che mi chiedo come mi abbiano catalizzato per ore e ore: Pet Society, Battle Solitaire, Wordon, Bloglovin, Facebook, Instagram, WordPress. Ma non solo. Si, l’ultima è proprio WP, per cui se un giorno non mi vedrai più, ecco, qui ti spiego come funziona il mio cervello. Che assomiglia molto a quello di mio padre. Ed io che pensavo di essere diversa, mentre più invecchio, più tendo a specchiarmi nello stesso riflesso.

La casa degli specchi

Siamo partiti precisini, scegliendo un tema, abbiamo messo insieme le idee, chiuso gli occhi e immaginato, lasciandoci condurre dalle sensazioni e dall’improvvisazione.
Le parole sono uscite da sole e ci sono piaciute. Bella lì, Zeus!

Avevo una passione per la casa degli specchi, era l’unica giostra che davvero mi attirava. Ero in Inghilterra, in una città dimenticata da dio, sul mare, col vento e i giubbotti pesanti, anche se era luglio inoltrato.
Vagabondavo con la mia amica, assieme alla quale saltavo le attività sportive del pomeriggio, giusto squash ogni tanto, per andare a bighellonare tra le macchinette mangia soldi sputa peluche, solo un coin, e quelle finte chiese, in cui si ritrovavano nullafacenti dediti al grande gioco del bingo.
Poi, ci si toglieva le scarpe e si andava sulla spiaggia, si camminava, si percorrevano chilometri, che la marea era bassa e i calzoni arrotolati fino alle ginocchia ci dava un’aria di ragazzine in un vecchio film francese.
La casa degli specchi, dicevo, un po’ mi impauriva, un po’ mi attirava, quel senso di abbandono, un labirinto mitigato, in cui perdersi, tra le immagini riflesse e deformate di noi due. Volevamo lasciarci andare e scoprire, nero su bianco, i difetti ingigantiti, con cui giocare, ridere, catturando la migliore immagine di noi stesse.

Me l’avessero detto prima, quando ero giovane, che il mio destino sarebbe stato quello di essere infelice in un mondo in cui tutti devono essere felici, probabilmente avrei scelto di non vivere. Anche se questa non è, in effetti, una mia decisione. Maledette cellule.
Invece eccomi qua, seduto su uno scranno di legno chiaro, con un dolore intercostale mentre guardo la gente far svanire i propri pensieri dentro pacchi enormi di pop-corn, caramello caldo e jingle ossessivi. Chi vince, chi perde? In effetti, in questo carosello, vincere o perdere è indifferente. L’importante è continuare a girare, tuffarsi dentro e riemergere con la speranza di avere, fra le dita tremanti, il doblone d’oro.
Come quelle due ragazze che ho visto arrivare, annusandone i contorni inquietanti, verso questo paradiso di silice.
Chi sono io? Cosa offro?
Io offro spavento. Io offro terrore. Regalo insicurezza. A solo pochi cent.
Perché non accettare? La mia mano non inganna… ma possiamo dire la stessa cosa della vostra mente?

Chissà se volevamo davvero inoltrarci, approfondire, toccare con mano e pure lasciarci turlupinare da questo incantatore magico. Che offre caramelle alle sconosciute come noi, con fare intrigante, che indossa un costume, una maschera e quando si specchia vede solo un’immagine fumosa di se stesso, quello che vorrebbe essere e al tempo stesso fugge, di continuo.
Ma forti del fatto di essere in due, affiatate, giovani e sicure ci avviciniamo a questo oscuro personaggio. Che saranno mai due caramelle? Forse è solo gentile, forse ci vuol rubare l’anima e la nostra immagine.
Ma tanto tra poco è ora di andare, si salta sul pullman e si ritorna a casa: ci aspetta fish and chips, conditi con aceto trasparente. E nella quiete di queste case di cartone, tutte scale e moquette, chissà se ripenseremo all’inquietudine della casa degli specchi e i sinistri abitanti?

Complaint


Sono caduta nelle terribili maglie dei customer care telefonici e mi ritrovo incazzata, senza spada, scudo, armatura o destriero a disposizione, nel limbo, nel buco nero delle non comunicazioni, assenza di collegamenti, vuoti a perdere, telefono senza fili, down, vuoto d’aria, sono cazzi amari tra le banche che non si parlano, solo piccioni viaggiatori, please e quei dinosauri pesanti e senza speranza che sono le compagnie aeree. In altre parole sono fottuta, inesorabilmente da due settimane, sospesa ad un filo. Leggi: ho pagato con carta di credito un volo intercontinentale, ma il sito autorevole di una grande compagnia di bandiera è andato giù, page non found dopo aver appena inserito i numerini dell’amore stampati sul pezzetto di plastica, per cui ho un disavanzo di tanti bei soldoni e non ho il biglietto in mano.

Da una parte ci può essere anche del sano masochismo, che mi permette di poter litigare insultando in portoghese con le 4, dico 4 parole che so, aggratis, giusto come capro espiatorio liberatorio e appagante, dall’altro vorrei sapere con certezza che il mio volo ai tropici è confermato e che posso di nuovo andare a brindare al natale, sollazzarmi a capodanno, mangiare manghi alla befana, abbandonare le ciabatte sulla spiaggia che tanto è deserta, solo le scimmie possono rubarmele.

Io che lavoro con il web e amo il web non ricambiato come il famoso e spassoso blog, da parecchi anni, posso dire una cosa a denti stretti? Capisco che ci possano essere dei problemi durante un acquisto, che sia tradizionale oppure elettronico, però trovo davvero inconcepibile che il servizio consumatori non faccia nulla per aiutarmi e che passino 14 giorni ed io non abbia risolto la situazione.

E tutto ciò si ricollega al post Faccio i convegni anche seri sui Big Data: essere una grande azienda, gestire innumerevoli dati, avere un cliente che mi paga sull’unghia per un servizio di cui usufruirà tra più di sei mesi, incassare i soldi, ma poi non fornire il biglietto per oggettivi problemi a proprio carico e non fare nulla per risolvere il problema. Complimentoni.

Lavatrice

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Programma 90 gradi

Credo di avere una necessità.

A volte mi capita, devo dire raramente, perché per ora mi stupisco ancora della mia fermezza, tenacia e positività. È che reagisco come un colpo di frusta, una scossa elettrica, una inversione di marcia, repentina e calcolata alle avversità. Chissà se è un bene oppure no. Chissà.

Però questa esigenza ogni tanto incombe, il mio corpo chiama, urla e scalcia e io so che devo assecondarlo.

Ho bisogno di stare da sola e lentamente prepararmi: respirare con calma, tirare su i capelli, chiudere gli occhi, socchiudere le labbra, aprire lo sportello e infilarci la testa.

Poi schiacciare il pulsante di avvio e far partire la lavatrice. So esattamente cosa succederà, ripercorro con la mente i passi successivi.

Ci sono i primi secondi in cui non succede nulla. Senti solo il rumore della macchina che si prepara. Poi inizia ad entrare l’acqua, sempre di più, fino a riempire completamente il cestello. No, il detersivo non lo metto in questi casi. Faccio il ciclo breve, credo sia sufficiente per lavare, sciacquare e pulire la mia testa, il cervello, le idee, i pensieri, i malumori, la tristezza. Le lacrime amare si confondono con l’acqua del lavaggio e io non sento più nulla. Anestetizzata. Impassibile. Sublimata. Come con un colpo di spugna ogni cosa sparisce, tabula rasa ed io posso ricominciare daccapo, se riesco arrivare alla fine. È una scommessa divertente. Anche sarcastica, immagino.

Programma 30 gradi delicato

Mi piace fare la lavatrice, mi rilassa, mi consola. Anche concettualmente è rassicurante. Prendi i vestiti sporchi e dopo due ore sono puliti. Lavi via senza fatica le macchie, le imperfezioni, la tristezza, i crucci, poi li stendi al sole e tornano come nuovi.

C’è una cosa che adoro dei panni stesi: l’odore intenso di aria buona. Quel profumo difficile da spiegare che non è il detersivo e neppure l’ammorbidente. È l’aria, quella che respiriamo, che si attacca alla roba e dona un gusto olfattivo unico, che calma come una panacea.

Vorrei cambiare tutti i giorni le lenzuola solo per sentirlo e addormentarmi così.

Tutti a scuola

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Basta! E’ davvero ora di dare una svolta alla mia vita, così non può continuare: è arrivato il momento di prendere seriamente in considerazione il fatto che devo tornare sui banchi di scuola. Capisco che non sia facile alla mia età riprendere in mano carta e penna e calamaio, ma quando è troppo, è troppo.
Non si può sempre improvvisare, far finta di essere dei veterani e non esserlo: gli altri se ne accorgono, lo capiscono benissimo, a volte sei impacciato, a volte tentenni, sbagli i tempi, sei troppo precipitoso, oppure aspetti troppo e dopo un po’, inevitabilmente, decidono di rivolgersi a qualcun altro, più esperto, professionale, capace: ti mollano lì, con tutta la tua voglia repressa e la tua buona volontà andata a puttane.
Perché ogni dettaglio è importante: il suono, i tempi, l’attesa, il respiro, lo sputo, il dolore, il rossore, la posizione della mano, la schiena inarcata, i fianchi, gli strumenti di lavoro e qui si apre un nuovo mondo, la selezione accurata, la preparazione, le forme, i colori, i materiali, come dosi la forza della mano, l’inclinazione, la precisione.
Basta un colpo dato male e in un istante rischi di rovinare tutto: spezzi l’atmosfera, distrai, innervosisci, fai perdere l’eccitazione, annoi o addirittura provochi dolore. No, no, così non va proprio!
Lo sappiamo tutti: sono i particolari che fanno la differenza ed io voglio essere brava, efficace, competente.
Voglio l’attestato da incorniciare e appendere sopra il letto, firmato e vidimato che dimostri senza ombra di dubbio, nero su bianco che ho studiato alacremente!
Ho deciso quindi di iscrivermi e frequentare una scuola specializzata, con tutta la dovizia e l’impegno necessario, voglio seguire le lezioni di teoria: anatomia, medicina, psicologia, fisica, acustica, chimica e poi mi concentro sulla parte pratica e di approfondimento: devo fare esercizio, tanto esercizio, su corpi diversi, fisicamente differenti, anche con sessioni di gruppo, per essere sempre in grado di gestire ogni tipo di situazione, dalla più basica alla più complessa e articolata.
Da lunedì, perché si inizia sempre tutto di lunedì, con la mente fresca e riposata, mi iscrivo alla scuola svizzera di spanking!

Giovedì esco con Rachel Gazometro, al concerto


Tutto è nato per caso.
Le collaborazioni nascono così: simpatia reciproca e qualcosa in comune, ingredienti sufficienti per cucinare insieme. E poi il desiderio di scrivere, di condividere, un po’ per scherzo, un po’ perché è divertente lavorare a quattro mani. Così Rachel ed io abbiamo deciso di cimentarci in un post con traduzione a fronte. Io in italiano e lei in romano moderno, un po’ per insegnarmi, un po’ per giocare.

Non perdete la traduzione a fronte della cara Rachel!

Terza lezione di romanaccio stretto con Rachel Gazometro.

Vogliamo farla divertire la nostra Rachel e per proseguire il tema delle arti, dopo averla portata al cinema e poi a teatro, oggi la scarrozziamo a vedere i concerti. Inizia pure la bella stagione e si sa che ogni scusa è buona per cantare a squarciagola e saltare sul posto come due forsennate.

In realtà nella mia vita ho visto pochi concerti, ma visto che sono una personcina equilibrata quest’anno ne ho già due o tre in programma. L’anno scorso trascinai l’amica mia, quella che mi dice sempre sì, a vedere i Modena City Rambles e ci piacquero tanto! Lei in realtà mi faceva un favore perché non conosceva manco una canzone, ma poi ci prese gusto e cantammo e saltellammo tra i fumi erbacei e qualche birra dall’inizio alla fine. Era un festival un pò alternativo, al confine della metropoli, il pubblico era trasversale, per cui potevi pogare (poco che ho una certa età) col diciottenne, ma anche pestare i piedi a diversi ultraquarantenni scatenati. Sentire dal vivo ‘In un giorno di pioggia’, ‘Contessa’ e ‘King of Fairies’ é stato fantastico.

Dicevo, non annovero molti concerti, mi sarebbe tanto piaciuto assistere a qualcuno di spaziale, di quelli indimenticabili che quando lo racconti casca a tutti la mascella, che so tipo Pink Floyd, Dire Straits, Marilyn Manson, ma invece ho visto (tanti tanti anni fa, eh!) Claudio Baglioni, con l’accendino al posto del pollice, acceso tutto il tempo, Sinead O’Connor, quando aveva già lanciato da un pezzo Nothing Compares 2 U, Paolo Conte, retaggio di mio padre, De Gregori, che le canzoni le-so-tutte, la cantessa catanese Carmen Consoli e i Casino Royal, per palati fini, ma soprattutto per chi se li ricorda.

V come roller


L’inutile post di ieri, giri di parole sconclusionati e inutili, per dire che mi sono iscritta ad un corso di roller, in linea.

Ma anche per continuare a riflettere sulla velocità, che non è solo vento in faccia come mi ricordava Smadonno, ma anche piacere nel compiere azioni veloci, appunto, efficienti, minimo sforzo massimo rendimento. Come quando a scuola, studiavo italiano con lo sputo, come sentenziava mia madre e i temi me li scriveva, durante l’intervallo, il mio compagno di classe secchione, per arrivare al sei stiracchiato, che una volta si rimandava a settembre, mica c’erano i crediti formativi, due mea culpa e sette ave maria.

Dicevo, ho sempre amato pattinare, lo faccio da tempi immemori, ma senza alcuna arte, nè parte. Ho imparato da bambina, con quei pattini con le ruote a due a due, che indossavi con le scarpe da ginnastica Superga bianche o blu e il freno era una grossa gomma tonda sotto la punta. Autodidatta, altrimenti detto maestra ad cazzum.

Perché mi piace? Per la velocità ovviamente, che riesco a raggiungere, per il fatto di essere a contatto con la natura, perché di solito lo faccio nei parchi. Però non ho tecnica, non so frenare, curvo in modo automatico, ma senza incrociare le gambe dietro, insomma vorrei acquisire consapevolezza del mezzo, non sembrare una che s’improvvisa, ma una che ne sa a pacchi e anche bene.

Era un pò che ci pensavo e ieri sera ho iniziato.

I maestri sono due giulivi che vivono un po’ sulle nuvole, apparentemente una giovane coppia ben assortita. Lui alto, ricciolone, con gli occhiali da sole sempre in testa e lo sguardo da pagliaccio, lei bruna, carina, con lo sguardo perso e l’aria casta e pura.

I compagni di corso, invece, sono una massa di allupati, che passano il tempo a sparare battute di dubbio gusto e a spalleggiarsi a vicenda. Due uomini e dieci donne, insieme statisticamente rappresentativo della fauna mondiale. Probabilmente si è sparsa la voce che il corso di roller è una valida alternativa a Tinder.

Abbiamo fatto esercizi di preparazione all’uscita della prossima settimana, al parco: passare sui tombini, salire e scendere dai gradini, fare le salite, superare i piccoli dossi. È stato divertente! Spero di diventare una fuori classe dei pattini in linea, che fa anche tanto porno anni ’80, con gli scaldamuscoli, la fascia elastica tra i capelli, il body sui pantacollant e il Big Babol, ovviamente.

V come velocità


A volte mi chiedo se certi piaceri, ma anche pensieri, che per me sono scontati, siano universali oppure appartengano solo a me.

Che ancora mi ricordo, quando ero una nanerottola ed ero convinta che tutti i bambini del mondo imparassero prima l’italiano e poi la lingua dei genitori. E ci ho messo un pò a capire che mi ero fissata su una grossa panzana. Come se l’italiano fosse così facile da assimilare, che ci sono autoctoni che faticano ancora in avanzata età ad usare i congiuntivi e la consecutio temporum. Che si può perdonare, anzi mi piace l’inclinazione della parlata dialettale, certi intercalari regionali, alcune espressioni che non sono errori, ma traduzioni letterali evolute, come quando scendi la spazzatura, ma certi errori fanno accapponare la pelle.

Il piacere, dicevo, della velocità, per esempio. Del mio corpo a mille chilometri all’ora, che sfreccia, col vento in faccia, il sibilio dell’aria che punge, a volte gelata, piccole frecce conficcate nella pelle e la sensazione elettrizzante di sfidare qualcosa, qualcuno. La mia concentrazione e lo sguardo vigile, la fermezza della mano e del piede, la giusta dose di sfrontatezza, ardire, calcolo mentale delle probabilità, prevenzione e cura, anticipazione dei movimenti altrui, che io stia sciando, che io stia pattinando, che io stia guidando, è sempre la stessa tattica. Strategia che mi tiene viva, che mi sbatte in faccia la mia identità. Che mi è chiara e limpida. A volte. Anzi, riformulo, è l’immagine che mi piace dare di me stessa. Tranquilli tutti, so cosa fare. Poi magari non ne ho idea, ma tutti mi credono, io faccio a modo mio e questo è l’importante. Che ognuno ha le sue specialità e soffro molto quando non vengono rispettate. Ma continuo ad andare fuori tema, a non spiegare. Qualcuno mi vorrebbe bacchettare a dovere. Facciamo così. Questo è un preambolo. Nei prossimi post svilupperò.

Il piacere palpabile della velocità. Anche molto relativa, per cui si rende necessario il confronto con gli altri, in una escalation adrenalinica: la bonaria competizione, la soddisfazione di aver scalzato l’avversario e l’impercettibile sorriso stampato sul volto quando tagli per primo il traguardo. Come quando Gene Gnocchi introduceva Vecchioni in quella meravigliosa canzone, che quello sguardo ce l’ho pure io stampato:

Ogni anno che passa, mi piace vedere la tua faccia
da viaggiatore di commercio che ha scoperto al
casello che c’è lo sciopero e non si paga e fa la
faccia seria ma dentro… ride.