Big data, partecipo anche ai convegni seri


Oltre a scrivere minchiate porno soft, pezzi di vita in chiave delirante e altre cose del genere, sono una assidua geek della penultima ora, anche terzultima per via dell’età. 
Non volevo farci un post, perchè credo che i blog tematici siano più performanti, più sul pezzo, più rassicuranti, più fidelizzanti, più, ma ho seguito un convegno sui Big Data e presa dall’entusiasmo per quel mondo lì, ho provato a riassumere in poche parole cosa mi ha colpito. Non voglio essere esaustiva, ordinata, contenuta, metto giù solo due appunti su un tema che trovo molto affascinante, a cui non ha senso opporsi, anzi è importante conoscere e sfruttare per vivere meglio, IMO.
Eh, si, anche la sottoscritta riesce a non parlare solo di fiche e culi, incredibile a dirsi. Ora che ho scritto una premessa quasi più lunga dei miei < 400 caratteri a disposizione posso autocensurarmi. Bang!

La rivoluzione dei social data

«Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai a lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.» (Morpheus a Neo)

Ogni giorno creiamo e condividiamo sempre più consapevolmente una grande varietà di dati sulle nostre transazioni, relazioni, interessi, intenzioni, ubicazioni e altro ancora.

Sempre più compagnie usano sensori, social media e big data per prevedere le nostre scelte. E noi, a nostra volta, condividiamo sempre più dati, quantitativi e qualitativi, per ricevere in cambio la possibilità di prendere decisioni migliori. Qualche esempio.

UBER
Non è una società che fa concorrenza ai taxi. E’ una azienda che gestisce dati, come Google. Tu usi l’app di Uber e non hai bisogno di dire nulla di te, sanno già tutto: chi sei, come paghi, dove ti trovi. Devi solo dire dove vuoi andare: l’unica informazione che ti chiedono ogni volta e poi arriva il servizio.

AMAZON
Ci sono due servizi incredibili che ha inventato Amazon:
– suggerire all’acquirente se sta comprando un libro già preso.
Caspita! E immagino che a qualcuno verrebbe da dire, ma no, non ricordiamoglielo, così compra due volte! Invece Amazon lo fa, per mille motivi di fedelizzazione nei confronti del consumatore.
– dare la possibilità a chi ha comprato di suggerire in prima persona, agli amici gli acquisti fatti.
Perchè c’è una bella differenza se è Amazon che mi suggerisce un libro o il mio amico che sa i miei gusti. Maghi del marketing, chapeau!

Foto d’identità

Prosegue il tema dell’identità che avevo iniziato da più parti. Ho scoperto che mi piace ricamarci su, tanto che ho fatto un indice, anzi di più ho creato una pagina che raccoglie tutti i post a puntate che ho scritto.

Sono tornata nella legalità. Che noia mortale. Nel giro di 48 ore ho rinnovato la patente e ho rifatto la carta d’identità. Ho avuto a che fare con la burocrazia, io che la fuggo come la peste, che guardo con stupore e stordimento chi ha il coraggio di accantonare il proprio grisbi alle Poste, che ho un conto online dalla notte dei tempi, che non so cosa sia un libretto degli assegni e non ho idea dei tempi e dei modi per andare a un CAF a fare la dichiarazione dei redditi. E non parlarmi di 730 che ho l’angoscia perchè mi si è cimito il Mac, dove salvavo diligentemente i print delle immagini dei miei PIN per entrare nel sito dell’INPS e ora come per magilla devo seguire l’iter controverso e labirintico per il recupero password. Mio Dio, sono fritta.

Però eccoli lì scintillanti e sudati i documenti che provano la mia esistenza sul sistema solare, recuperati in soli cinque minuti per quanto attine il discorso patente e in 4 cazzo di ore all’anagrafe per il documento d’identità. E quando finalmente leggo il match tra il codicillo stampato sul bigliettino della macchinetta e quello che compare a monitor, ed io avanzo baldanzosa allo sportello con il vetro blindato (sono sicura siano soldi pubblici spesi bene), mostrando foto, passaporto, cash e denuncia di smarrimento ai carabinieri, la nostra dipendente statale, serafica e cinica sentenzia che le foto non vanno bene perchè stampate su carta straccia. Ma come? E’ carta fotografica, esattamente la foto che avevo usato 5 anni fa, e ti mostro saccente la fotocopia del documento ormai perso o abbandonato, importanza non ha. Ma non basta tutto ciò a convincere la megera che mi spara alle terribili macchinette mangia 5 euro che mi dona devastante foto della mia faccia post sbornia di 48 ore fa, struccata e in ciabatte, che tanto vado solo all’anagrafe, chi vuoi che mi veda. Per cui ho finalmente l’attestato con una foto improponibile, che passerò sottobanco e occhio basso, sperando non ci si soffermi troppo.

Per riprendermi da tutto ciò, fatemi fare qualcosa di tremendamente illegale, right now.

Cinema d’essai


Scrivere con Pornoscintille è sempre molto stimolante. Attenti a non confondervi con gli spettatori di questo cinema d’essai!

Avevo letto più recensioni e quel film mi ispirava molto, ma non avevo trovato nessuno con cui andare al cinema. Alla fine avevo deciso di andarci da sola. Non c’era molta gente in giro quella sera e dopo una breve coda alla cassa, avanzavo verso la poltroncina numerata che mi era stata assegnata.

Ti accorgi che quello non è un cinema comune: entra una donna altissima, muscolosa, con un cane al guinzaglio. Strabuzzi gli occhi nel buio del cinema e ti accorgi che il cane, invece, sono io, seminudo e col collare.
Pianti gli occhi negli occhi di lei, quasi per sfida. Lei ti valuta; tu valuti lei. Poi prende una decisione: viene a sedersi accanto a te e io mi accuccio ai suoi piedi. Per un po’ guardiamo il film. Tu, a cui il coraggio non è mai mancato, le posi una mano sulla coscia più vicina a te e lentamente la fai salire su, fino a infilarla sotto la sua gonna. Le tue dita trovano la sua fica già bagnata. Lei dà uno strattone al guinzaglio: sollevo la testa in attesa di ordini e seguo il suo sguardo che va in direzione delle tua fica. Mi metto in ginocchio davanti a te, fra le tue cosce, e lecco i tuoi piedi, con particolare insistenza sul collo del piede. Poi risalgo con la lingua fra le tue cosce, fino ad arrivare ad annusarti gli slip. Ho un’erezione immediata. Sollevi il bacino, sposti gli slip scoprendo la fica e mi premi con forza la nuca fra le cosce. Io, diligente, obbediente, ti lecco fra le labbra, sul clitoride gonfio, lo mordo leggermente. Mi stringi le cosce intorno al collo.

Non capisco se sei un uomo o un cane. Sento il naso bagnato, qualcosa di molto peloso che mi solletica la fica fradicia e il tintinnio del collare che sbatte contro la poltroncina del cinema. Mi pare di essere in un sogno, cerco di ricordare se ho bevuto o fumato prima di arrivare, ma mi pare di no. Sono molto confusa, ho la vista annebbiata, ma soprattutto sono eccitata all’idea che sia un cane a leccarmela per bene. Mi godo il trattamento inaspettato mettendomi comoda, appoggio i tacchi sulla tua schiena e le mie gambe nude avvertono il pelo della tua schiena. Forse sei davvero un cazzo di animale? Ma che importa, dopotutto?
La padrona sembra gradire le mie attenzioni e penso che forse lei vorrebbe che le restituissi il favore. Del resto il cane, cioè tu, sei suo, o no? Per cui mi riprometto di impegnarmi su di lei, non appena tu hai finito il tuo dovere.

Continuo a leccarti diligentemente. L’odore della tua fica eccitata mi rende famelico: mi nutro dei tuoi umori. I tuoi tacchi sulla schiena mi fanno impazzire. Mi sento umiliato e al tempo stesso orgoglioso di essere utile alla mia padrona e di riuscire a darti tanto piacere.
La tua mano affonda fra le sue cosce. Da come la muovi, almeno tre dita le sono nella fica. Sembra che le stia scavando dentro. Lei si sbottona la camicia e si strizza un seno. Gemete entrambe.
Aspiro il nettare che sgorga dalla tua fica continuando a succhiare, a leccare e a spompinarti il clitoride. Stringi le gambe intorno al mio collo, quasi soffocandomi.
Ormai siete partite. Lei mi afferra per le orecchie e si mette a cavalcioni su di te. Spinge giù la mia testa e strofina la fica sulla tua.
Io resto in mezzo, le vostre fiche sovrapposte si strusciano, mentre lei ti morde i seni e tu il collo, io lecco il culo ora a te, ora a lei.
C’è qualche altro spettatore nel cinema a cui ormai la poltrona scotta sotto il culo.

Forse il film proiettato non è così interessante, forse noi siamo uno spettacolo migliore, non saprei, sta di fatto che le altre persone in sala si alzano e si avvicinano a noi. Sento i loro occhi e il loro fiato sui nostri corpi avvinghiati, e pian piano anche le loro dita che si insinuano con partecipazione.
La tua padrona alza per un breve intervallo la testa dalle mie tette e sibila una parola incomprensibile, poi torna a dedicarsi a me. Io non capisco che cazzo ha detto, ci rimugino su e poi mi viene un’illuminazione. Ha detto: “Go!”. “Che vorrà mai dire?” mi chiedo. Poi capisco che è un segnale: ha dato il via agli altri clienti che, come in una danza al rallentatore, si incastrano a noi.

Vengono su di voi, vi baciano, qualcuno inizia a leccarle le tette, un altro si fa coraggio, tira fuori il cazzo e glielo struscia sul culo. Poi tu, perversa, indichi me a qualcuno di loro, il più grosso o meglio, quello che lo ha più grosso. Mi afferra per i fianchi, mi allarga le natiche e mi punta il cazzo sull’ano. Ci sputa sopra poi gradualmente me lo spinge dentro. Voi vi aggiustate sulle poltrone per accogliere altri cazzi. Tenete ancora incollate le bocche, ma solo quelle, e due degli spettatori strusciano i loro cazzi sulle vostre rispettive fiche, fino a quando voi, stufe di giocare, li afferrate e ve li spingete dentro.

Incliniamo la schiena e ci facciamo stantuffare per bene. Ogni tanto qualcuno si toglie, ma subito qualcun altro lo sostituisce, come una danza, perfettamente sincronizzati. Con la coda dell’occhio ti guardo, protettiva, voglio che tu goda e stia bene. Intanto lo schermo trasmette il film, incurante di questo groviglio armonico di corpi.

Infatti godo e sto bene: un cazzo enorme mi riempie il culo e un altro la bocca; per sovrammercato vedo le vostre fiche a pochi centimetri dal naso, riempite a loro volta da cazzi che vanno e vengono, sborrano, escono e vengono rimpiazzati da altri freschi. E ciò che mi fa sentire meglio di tutto è il tuo viso indulgente che mi guarda, carico di comprensione e che mi fa sentire protetto. La mia padrona mi accarezza la nuca, mentre succhia un cazzo con dignità da regina.

All’improvviso si alzano le luci. Il film è finito. Lentamente ci ricomponiamo e torniamo a casa. Chissà cosa c’è in programmazione domani? Potrebbe andar bene finanche un film di Godard.


Aveva 50 anni

  
Aveva circa 50 anni, non sono mai stata brava a capire l’età delle persone. Non era particolarmente curata, anzi, ma il suo ruolo non lo richiedeva per nulla, per cui molto spesso si presentava in tuta, con un cappello di lana in testa che teneva anche in casa, le t-shirt rammendate, i capelli con la ricrescita, niente monili e anche un accenno di puzza di aglio. Era forte e muscolosa, l’esercizio fisico che faceva ogni giorno, le aveva modificato il corpo. Aveva gli occhi azzurri e un viso che faceva intuire la provenienza slava.

Lavorava per me da tempo immemore, aiutandomi a gestire la mia grande e impegnativa casa, su due piani, col terrazzo, le scale, il tetto, i bagni, la cucina con l’isola, la cabina armadi, il sottotetto. Era molto brava, attenta, premurosa. Era una di famiglia, qualcuno di cui potersi completamente fidare.

Quel pomeriggio ci trovammo a fare due parole nella mia camera da letto, tra una trapunta in mano e uno stendino fitto, fitto di robe appese. Io non ricordo esattamente di cosa stessimo parlando, ho la mente offuscata, ho i ricordi che si sovrappongono e mi ingannano. So solo che con un gesto semplice, rapido, sconvolgente, si alzò la felpa per mostrami di non portare il reggiseno.

Rimasi di sasso. Ero lì, nella mia casa, ad osservare attonita quel seno bellissimo, che attento mi scrutava roseo. Un pezzo di carne mai neanche lontanamente desiderato, che all’improvviso mi puntava fiero.

Senza una parola ci guardammo, perdendoci nei nostri occhi azzurri. Se avessi volto lo sguardo altrove, sarei stata certa che i fatti successivi sarebbero stati diversi. Ma io ero lì, che la osservavo e con quel gesto acconsentivo. Dicevo sì alle sue mani, alla sua bocca, alla lingua bagnata che mi percorreva le cosce, che io aprivo, divaricavo, come se non avessi aspettato altro negli ultimi quarant’anni.

Non ricordo quanto tempo impiegammo per considerarci soddisfatte, ma una cosa era certa: non vedevo l’ora che arrivasse domani.

Promiscuità


Ho imparato l’anatomia del tuo corpo: le linee, gli incavi, i buchi, le protuberanze, i muscoli, le escrescenze, il tuo odore, il tuo profumo, il tuo sapore. Come ti muovi, cosa ti piace, cosa cerchi, cosa ti imbarazza. I tuoi sorrisi, il tuo sguardo, le tue frasi interrotte.

Ho preso appunti, diligentemente, come mi piace fare. Come a scuola. Ho segnato ogni giorno i punti chiave da memorizzare. Procedo per schemi, io. Ho focalizzato le nostre esigenze, ho tracciato le curve, ho composto le tabelle.

Non so tutto di te, mi serviranno altri anni, ma almeno il diploma l’ho preso. Ne sono certa. Non sono l’unica ad averlo conseguito, questo lo so, ma non mi importa per nulla, non sono gelosa e l’autostima non mi manca.

Ora sono pronta, siamo parati. C’è un mondo da esplorare ed io lo voglio fare con te. Una voragine che mi attira, come le sirene con Odisseo formidabile. Un percorso da intraprendere, tempestoso, che mi eccita, che mi infuoca.

Ti riconoscerei tra mille, anche al buio, nella penombra dei corpi aggrovigliati, catene, incastri di pelle e muscoli, tra i fiati intrecciati, le mani allungate, i permessi richiesti ed accordati, gli assensi, gli accessi, le aperture, le disponibilità concesse a sconosciuti mascherati dalle luci strobostopiche.

C’è qualcosa che mi affascina, che mi chiama, che mi porta a desiderare tutto ciò. Fa parte di me.
Me ne sono resa conto all’improvviso, come quando hai i pezzi del puzzle davanti e non hai idea della figura che si comporrà alla fine. Quella prospettiva dall’alto che aiuta e ti permette di avere una visione a lungo termine, della tua vita. Piccoli passi che compongono un viaggio speciale, il nostro.

È andata così: io davanti a te, con l’entusiasmo e il desiderio struggente e primordiale di provare qualcosa di nuovo, diverso. Una svolta alle nostre vite. Mi guardo indietro e osservo le curve, i tornanti che ho tracciato per noi. Sempre.

L’epilogo – warning!- a lieto fine (Managers #8)


E’ stato wow. Mi sono divertita e sono stata bene. Anche loro erano entusiasti, l’ho percepito dai loro occhi, dai sorrisi, dall’entusiasmo con cui saltellavano da una parte all’altra. Dai loro ohhh!, dalla genuina volontà di mettersi in gioco, erano bambini spontanei e divertiti. Abbiamo fatto la foto di gruppo (senza i cheeeese e le corna), mangiato tutti insieme, bevuto troppo, sono morti molti ‘lei’ che sono diventati dei bei ‘tu’, abbiamo respirato la stessa aria, distesi uno accanto all’altro sui tappetini yoga, nel silenzio, interrotto dal nostro fiato, vicini vicini, uniti, solidali, rilassati e anche felici.

I trainer sono stati bravi, ci hanno messo a nostro agio, abbiamo collaborato, imparato e approfondito le relazioni.

Non sono impazzita, tranquilli. Semplicemente, tutti quanti, sono riusciti a tacciare il mio lato cinico. Poi a me le full immersion, peace and love di gruppo fan questo effetto: mi rammolliscono e mi fanno vedere il mondo tutto rosa. Domani mi passa, stay tuned!

A sorpresa è stato un week end piacevole per me e anche per loro, che mi hanno applaudito all’unisono alla fine, che mi hanno scritto, messaggiato e telefonato, grati per l’esperienza vissuta.

Come quando vai a fare il campus estivo, vivi coi tuoi compagni 24/24 ore e poi alla fine, quando ci si saluta, ti mancano. Che la scuola è per tutti finita da un pezzo, ma quel clima cameratesco, in cui si sghignazza, si sussurrano gossip, ci si fa seri per ascoltare i maestri, si prende appunti, si arrossisce quando bisogna parlare al microfono davanti a tutti (in inglese, per giunta!), si fa l’occhiolino al vicino di banco, si schernisce per gioco il compagno di banco, si balla, si ride, si fa team building, beh ti trasforma davvero e capisci che tutto questo ogni tanto serve. Che mandare le mail, alzare il telefono, fare le call, certo aiuta, riduce i tempi, nero su bianco perché verba volant, ma il contatto diretto, occhi negli occhi, avvicina, unisce, fai parte di un gruppo, remi  nella stessa direzione, i soldi non c’entrano, almeno per un istante, sono le persone con cui passi la maggior parte della tua vita e scopri a sorpresa che sono davvero simpatiche.

Nota: questo post così concitato e tenero si autodistruggerà in un… bum!!

La sbobba (Managers #7)

  
I manager e i brain trainer a un certo punto si troveranno davanti ad un tavolo. Imbandito. Perché dopo tanto lavorare, pensare, stringere di meningi e di chiappe, il languorino salirà, l’arsura si farà sentire e so già che tutti quanti in massa guarderanno me, con fare famelico, questuando, solo con l’inclinazione della testa e il sopracciglio ben pettinato: dov’è la sbobba?

E allora forse si lasceranno andare tra una tartina rinforzata e un bel bicchierone di Primitivo di Maduria, di quelli che fanno minimo 14 gradi e che dopo due rabbocchi sei a quattro zampe con gli occhi pallati, attaccato alle gambe del tavolo oppure a quelle slanciate e sexi della vicina, occhi di gatto e rossetto Chanel numero 5. Che devi fare attenzione a non offrire troppo, ma neanche troppo poco, che non si dica che la sottoscritta lesina il cibo, ma neanche che tenda allo spreco in questo mondo perennemente in crisi. Che per inciso IMO non si può dare tutta la colpa alla recessione economica, il mondo sta cambiando e tu ti devi adeguare. Anzi innovare, la parola più abusata del globo terraqueo.

Macché! Altro che Primitivo, questi sono dei quaquaraqà, ingurgitano al massimo un Prosecchino al volo, anche due, non sono certo abituati a bere sereni. Che se si ubriacassero anche poco, credo ci si divertirebbe davvero molto. Da tutti impettiti, con il doppiopetto, il capello impomatato e il palo infilato nel culo, impazzirei a vederli spettinati, con la cravatta allentata, la camicia fuori dai pantaloni, svaccati per terra, sulla moquette a pallini tono su tono, che credo costi quanto il prodotto interno lordo di una regione a caso del sud est asiatico. E magari a fine serata, invece di correre sulle punte a casa con il taxi prenotato un mese in anticipo, decidano di tornare in hotel a piedi, cantando mano nella mano una canzone del grande Lucio, palpando culi a caso, che fa tanto team bulding (IMO).

Macché! Altro che tartina rinforzata, sformatino di melanzana alla parmigiana, timballo con polpettine, millefoglie con besciamella colante, questi sono tutti intolleranti a qualcosa o anche a più cose insieme, ma immagino anche a qualcuno. Per cui sui menù campeggiano doppi, tripli asterischi che recitano ignavi:
– senza glutine
– senza lattosio
– vegetariani
– senza ritegno alcuno

Ma che cazzo mangiate miei prodi colleghi? Ah, giusto, voi fate la spesa online, l’insalata già lavata e masticata e barrette energetiche che non sporcano e non portano via tempo inutile al vostro proficuo e utilissimo lavoro di consulenti in corriera.

Ma per concludere e spezzare una lancia in favore loro, posso dire che non sono tutti così, anzi. Ed io, modestamente, ho il radar per individuare qualche eletto, con cui ridere e scherzare e soprattutto sopravvivere durante questi momenti di puro terrore. Ho persino un collega che mi ha giurato di farmi da cameriere per tutta la serata!

 

Giovedì esco con Rachel Gazometro, a teatro

  

Tutto è nato per caso. 

Le collaborazioni nascono così: simpatia reciproca e qualcosa in comune, ingredienti sufficienti per cucinare insieme. E poi il desiderio di scrivere, di condividere, un po’ per scherzo, un po’ perché è divertente lavorare a quattro mani. Così Rachel ed io abbiamo deciso di cimentarci in un post con traduzione a fronte. Io in italiano e lei in romano moderno, un po’ per insegnarmi, un po’ per giocare.

Non perdete la traduzione a fronte della cara Rachel!

Seconda lezione di romanaccio stretto con Rachel Gazometro.

Per continuare il tema delle arti, dopo il post sul cinema, ci abbiamo preso gusto e vogliamo andare a teatro. Eh già! Qui non stiamo a pettinare le bambole, si parla di temi cul-turalmente elevati, un pò per andare incontro al grande pubblico¹, un pò perché noi ci sentiamo femmine latine su uno dei palcoscenici più belli e affascinanti del mondo: Roma! Diamo quindi il via alle danze.

E’ ormai un annetto che faccio un corso di conversazione in inglese con una ragazza madrelingua. Non so dire se il suo inglese sia perfetto, ma è senz’altro molto brava a farmi sentire a mio agio, anche perché non facciamo mai esercizi pallosi di grammatica, ma sostanzialmente parliamo di chitarrini² nostri. L’altro giorno per ravvivare la nostra oretta mi ha proposto due giochini divertenti, che all’inizio mi han un pò bloccata e imbarazzata, ma poi ci siamo divertite parecchio, tanto che abbiamo iniziato a ridere con le lacrime agli occhi, con beneplacito dei colleghi delle stanze attorno, che stavano lavorando. Il primo era una forma di taboo: dovevo spiegare il significato di una parola, senza usare una lista di termini vietati. Il secondo era quello di usare una lista di vocaboli apparentemente senza collegamento per inventare su due piedi una storia.

Che cappero³ c’entra il teatro qui? Aspè che mo’ ci arrivo!

Tutto ciò mi ha fatto venire in mente che durante l’adolescenza ero parecchio timida e introversa e mia madre, preoccupata, mi aveva costretta a seguire un corso di teatro. Un vero incubo. Ricordo che l’insegnante iniziò con un esercizio facile, facile per metterci comodi. In piedi, davanti a tutti, lui pronunciava una frase ad effetto e tu in tre secondi dovevi rispondere a tono. Sprofondavo dalla vergogna. Avrei voluto essere trasparente, smaterializzarmi come polvere al sole ed evaporare dalla finestra. E invece lui mi chiamò e concitatamente e con passione mi urlò: Ti amo! Io lo guardai esterrefatta, con gli occhi densi di orrore, le gote rosse, le mani gelide e scappai via a gambe levate. Si concluse così la mia infamante sessione di improvvisazione teatrale.

Son passati vent’anni , consapevolezza e maturità mi hanno permesso di improvvisare sketch divertenti, da cabarettista in erba, con l’insegnante d’inglese.


¹ Eh!
² Ho letto in giro che scrivere cazzi è volgare.
³ Anche cazzo è molto volgare. Vado a sciacquar la bocca.

 

 

 

L’identità dei fatti


Prosegue il tema dell’identità che avevo iniziato qui e qui. Mi piace molto, credo che continuerò.

Circostanza numero 1: la mia patente
Oggi alle 4 di pomeriggio presa dal sacro fuoco dell’ordine compulsivo ossessivo della borsa, mi sono accorta che la mia patente è scaduta. Da tre mesi. Non ho la carta d’identità, e i miei più assidui fan sanno che l’ho persa, ma per tre lunghi mesi ho puntato tutto su un documento dichiaratamente non più valido. Mi sono seduta al tavolo verde per 90 lunghi giorni, pensando di avere un amuleto invincibile in tasca, ho tirato i dadi spavalda e invece non avevo un cazzo. E ho guidato per tre mesi rischiando la multa. Che non è solo una questione economica e di amor proprio. È un andare contro la legge e anche la giustizia. A delle regole scritte non scritte che non posso fare a meno di non seguire, per carattere, per coscienza, per integrità morale. Che poi tutto questo essere ligia nei confronti della legge, svacca senza ritegno in altri ambiti. Chissà perché, curioso l’essere umano.

Circostanza numero 2: la tua carta d’identità
Anche tu non ce l’hai più. Anche tu l’hai persa, abbandonata, lasciata chissà dove. Forse è scappata e si è rifugiata sotto un ponte, con la luna metallo, che ci illumina al buio. Io non capisco se davvero siamo così simili come mi pare, o se è solo una fantasia, una volontà che non esiste, un desiderio di assonanza, il mio spirito di unione, che giustifica e mi rassicura, ma che a degli occhi attenti e razionali sembra solo un bluff, un grosso equivoco su cui mi piace trastullarmi, amabilmente. Chissà.

Conseguenze alla circostanza numero 1: i testimoni
Mi è rimasto il passaporto, ma se decidessi di bruciarlo, sarei completamente priva d’identità. Del tipo che per dimostrare la mia esistenza nel mondo dovrei procacciarmi due testimoni, disponibili a dichiarare, sotto giuramento, che io esisto, non sono un fantasma, uno spirito che aleggia nell’aria, che un giorno si manifesta qui, un giorno è dall’altra parte del globo. Magari!

Conseguenze alla circostanza numero 2: mi scopro romantica e non è un bene
Io sono quasi sicura che i nostri documenti siano insieme, così come le nostre identità. Sono lì accoccolati, che rollano una canna e si fanno due risate, mentre ci osservano da lontano, che fatichiamo, ci consumiamo su inutili problemi esistenziali. Che ogni tanto ci lasciamo andare, che spesso facciamo i sostenuti, che qualche volta facciamo e anche spariamo cazzate, che molto spesso vorremmo essere altrove, anche quando ci stiamo divertendo. Perché noi siamo così: non siamo mai soddisfatti, la completezza non c’è mai, c’è sempre ricerca, tensione, inquietudine. Perché?