Ode al sacco

   
Per il progetto #zozzolerci lanciato da Ali di velluto e Ysigrinus,  aggiungo un mio piccolo contributo.

Ringrazio Ali di velluto per il disegno bellissimo.

Dico gatto.

Non dico gatto se non ce l’ho nel sacco.

Cerco il sacco.

Sacco in latex, non ce l’ho.

Sacco serio neanche.

Ma ho un’urgenza, una tremenda fretta, anzi abbiamo.

Vado in cucina a cercare un surrogato, un sostituto. Cosa trovo?

Ecco! Ho la pellicola trasparente. Ne ho comprata a pacchi.

Sono andata al supermercato e ne ho riempito il carrello.

Spiega la plastica morbida e sottile, appiccicosa, che comprime e non fa respirare.

Srotola, srotola con attenzione. Avvolgimi dentro, non sono un panino, si, sono il tuo panino.

Scegli tu cosa lasciare fuori, un pezzo di carne a scelta, la pelle, una protuberanza, una fessura, un buco, il baratro, le montagne, le colline, un ramo, la radice.

Mi piace un sacco.

Non riesco a liberarmi, mi sento una mummia alla tua mercè.

Mi affido a te e la temperatura un pò si alza. La plastica mi fa sudare, mi costringe, sento le tue dita che mi toccano, che premono, ma non mi sfiorano veramente.

Fa caldo, molto caldo, chiudo gli occhi: dieci sacchi per te se indovini a cosa penso!

 

Che c’è per cena, stasera? 

 mango 
C’era un tempo in cui mi piaceva andare a cena fuori nei posti ricercati, eleganti, curati, cari, stellati. C’era una grande ricerca da parte mia nel selezionare il posto giusto. L’arredamento e l’ambiente andavano di pari passo con il cibo, che non poteva essere certo qualcosa che avresti potuto mangiare a casa. Doveva essere un’esperienza particolare, da vivere e poi magari raccontare, sparando giudizi e opinioni sulla piattaforma adatta ad accogliere questo tipo di cose: Tripadvisor. Vi sono iscritta da dieci anni e ogni tanto mi mandano i complimenti perché son utente parecchio esperto. Addirittura. Mi hanno persino mandato dei gadget a casa.

Ora devo dire son parecchio cambiata e godo ad andare a mangiare sempre negli stessi posti. Poi ogni tanto testo anche i nuovi, ma il piacere maggiore lo provo quando torno nei soliti due o tre locali: mi piace entrare come un’abituè, sedermi sempre al solito tavolo, ordinare il solito cocktail e lanciare un sorriso alla solita cameriera.

Rimango un punto di riferimento tra amici, colleghi e parenti, perché spesso mi chiedono consigli su dove andare a mangiare. Mi fa piacere aiutarli, mi piace essere considerata esperta in questo tipo di cose.

Ultimamente vado a mangiare in una bocciofila. Un posto alla buona, pieno di baldanzosi vecchietti, che ti servono in ciabatte di lana gli gnocchi di patate fatti in casa conditi col ragù di salsiccia e l’insalata russa piemontese, sulla tovaglia a quadretti. Che ti chiedono con amore se va tutto bene e ti cazziano e ti mettono in imbarazzo se non finisci il piatto. Ti fanno anche un po’ fretta, perché poi apparecchiano il tavolo di fianco a te, e mentre tu sei al dolce, si siedono vicini, vicini e mangiano le stesse cose che hai ordinato tu.

Oppure mi piace il bistrot caldo e accogliente, con i piatti della tradizione, ma sempre un pò rivisitati in chiave fusion. Lì puoi pasteggiare con un superalcolico e ascoltare la musica giusta in sottofondo. Con i bicchieri tutti diversi e i grissini nella scatola di legno. E ordini sempre il solito, senza neppur dover specificare cosa.

Cucù


Apro la porta.

E ci sei tu in cannotta bianca a leggere costine. Ti segna i pettorali, ti esalta le spalle, ti copre quella pancia perfetta che ti ritrovi, dove amo appoggiare la testa. Per ore.

Hai i jeans, una cassetta per gli attrezzi, una matita infilata sull’orecchio e mi chiedi cosa c’è da riparare. La lavatrice, ecco, per di qua.

Apro la porta.

E ci sei tu in giacca e cravatta, in completo grigio ferro e camicia. Occhiali da sole e cinta di cuoio che si intravede, ma dice tutto. Zainetto morbido scuro da manager rampante e ti scusi perché sei in ritardo alla riunione.

Apri il portatile e non posso fare a meno di notare le tue mani nervose e sensuali. Illustrami il progetto, prego.

Apro la porta.

E ci sei tu con lo stetoscopio al collo, il camice semiaperto e le ciabatte mediche. Hai gli occhiali da vista, uno sguardo preoccupato e mi esorti a sdraiarmi sul lettino. Sono malata e mi vuoi curare. Tu.

Mi osculti qui, dottore. Le pare grave?

Apro la porta.

E ci sei tu in calzoncini, polo bianca, scarpe da ginnastica e racchetta da tennis in mano. Saltelli sul posto, sei un pò sudato e mi chiedi di fare una partita insieme. Mi vuoi stracciare, non credo sia difficile visto che non so giocare a tennis. Servi tu per primo?

Apro la porta.

E ci sei tu, con gli stivali sporchi di terra, la camicia scozzese, con le maniche arrotolate, i guanti da giardinaggio e un piantino in mano. Mi chiedi dove puoi attaccare la pompa per bagnare il giardino. Really?

Apro la porta.

E ci sei sempre tu, che mi fai ridere, che mi fai sognare e reinventi ogni volta te stesso, per stupirmi, per farmi innamorare, più di quello che fai ogni giorno.

Apro la porta e ci sono io che ti aspetto e come ogni sera ho voglia di giocare con te.

Ore 9: call conference (Managers, #0)


Iniziare la mattina, alle 9, con una call conference in inglese stretto, stretto parlato da un tedesco o uno svizzero tedesco che si mangia le parole e tu non capisci una beata fava, ma sei di fianco alla Ceo e oltre a sorridere e annuire ogni tanto, ti fanno pure una domanda e cazzo tu devi dire qualcosa, qualsiasi cosa per non sembrare completamente stupida? Yes, of course.

Perché, a volte, cogli almeno una parola, un significato, un termine che ti pare di riconoscere e punti tutto su quello, per interpretare, seppur lontanamente, il cuore di questa incomprensibile conversazione. Perché a noi il video funzionava, allo svizzero tedesco no, per cui manco leggere il labiale è una soluzione percorribile, Capitano! Siamo fottuti.

In queste situazioni cerco di mantenere una faccia intelligente, quasi arguta, di una che pensa, pensa, talmente pensa che non può neanche essere interrotta in questo pensiero invadente. Così non si sente l’enorme punto interrogativo che aleggia nel mio cervello e nel mio cuore. Di cosa sta parlandooooo? Sento l’eco dei miei pensieri. Anche fissare l’orchidea può servire, perché dà l’idea che si stia formando un pensiero che tra un po’ sarà esternato. Tra un po’, forse.

Per fortuna lo ST… (svizzero tedesco) è logorroico, la mia Ceo pure, per cui annuire sapientemente e gettare parole di circostanza a caso, in mezzo a loro, alla stanza, al monitor, nel corridoio, dalla finestra, non dovrebbe insospettirli più di tanto. C’è da dire a mia tenera discolpa che la situazione è una delle peggiori in cui puoi capitare, perché non vedere l’interlocutore, ma sentirlo con la linea disturbata (non era così disturbata, ma tant’è) e il fiato sul collo della magnifica mia Ceo, che tra l’altro adoro incondizionatamente, bellissima donna, di una classe innata e un’aura scintillante e tutte le piante di orchidee che mi fissano, io che sono rientrata dalla malattia, ora, che sono le 9 di mattina, praticamente l’alba ed io non capisco un acca.

Tempo fa temo che mi avrebbero chiesto un meeting report, il temutissimo riassuntino da terza elementare con i to do e i next step. Per fortuna ho superato quella fase da mo’, nessuno si aspetta che li faccia. È il fottuto vantaggio di essere il cliente. Ho fatto per 15 anni il fornitore, ora che sono dall’altra parte della barricata, raccolgo i frutti. Per cui chiudo brillantemente la call con un thanks a lot, We’re waiting for your proposal. Anche questa volta ce la siamo sfangata.

Beata influenza 

 mango 
Sono giorni d’influenza, e per una che non sta mai male mi sento come quegli uomini cagacazzo che si lamentano ad ogni piè sospinto. Ma sono contro gli stereotipi, l’ho detto troppe volte, per cui mi rendo conto che questa frase sarebbe da censurare. Sarebbe.

Sono morta collassata nel letto, abbandonata nel mio malessere fisico e interiore. 

A dire il vero in mutua si sta da dio, si dorme, si legge, si ozia. Si può fissare il soffitto bianco senza pudore, per ore. Ci si può trastullare su Tumblr, si può sfogliare l’Internazionale, si può leggere Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, si può telegrammare con gli amici senza interruzioni, si può mangiare direttamente dal pentolino minestrina immersa nel Liebig. Insomma una festa. Poi si dimagrisce di qualche etto senza sforzo. 

‘Na pacchia. ‘Na pacchia che oggi finisce. L’unica cosa è che da malata non riuscivo a scrivere i post, la creatività va di pari passo con la salute? Bah, non se n’è accorto nessuno.

In compenso ho avuto modo di scialarmi a leggere i post degli altri, a scoprire nuovi blog da seguire, a rendermi ripetutamente conto che ci sono due miei post che vengono letti tutti i santi giorni. Non sono tra i miei preferiti, non sono i più porci, non i più scemi, non i più commentati e neanche i più piaciuti. Non sono brutti, ma ho fatto di meglio. Misteri delle schifose statistiche gratis di WP.

Identity found



Prosegue il tema dell’identità che avevo iniziato qui e su cui ha scritto qualche cosa anche l’amico Domenico Mortellaro.

Musica gentilmente offerta dall’amica Mela sbacata: Every breath you take.

E pian piano raccolgo in un folder i documenti che attestano la tua vita. Come un puzzle, come l’opera di un sapiente detective alla ricerca di un’identità: la tua.

Omissioni di parole e opere. Ma tra le maglie della tua corazza ogni tanto c’è un buchino, una piccola falla, ed io la colgo subito, l’avverto  anche ad occhi chiusi e ci infilo subito il dito dentro, come una ragazzina dispettosa.

E raccolgo, raccolgo, colleziono i pezzi anche quelli impercettibili e mi dedico al mio hobby preferito. Mi devi perdonare, ma io mi diverto così: andare a caccia dei tuoi indizi. Non ho fretta, raccolgo con calma flemmatica ogni singolo sassolino e metto da parte, poi la notte accosto le tessere del mosaico e mi soffermo ad ammirare il mio lavoro di certosino.

Archivio il tuo curriculum, le tue foto, i ricordi, i pensieri, gli aneddoti, i giochi, i nomi dei tuoi parenti, l’indirizzo di casa, i colleghi, i tuoi gusti, le tue manie, le perversioni, la marca dell’auto che guidi, le donne che hai amato, i tuoi profili sparsi per la rete, le debolezze, i vestiti, i libri, i gusti, gli sport, i malanni, la musica, i film, i viaggi, i tuoi orari, le posizioni in cui ti piace scopare. Sono anni, che segno tutto meticolosamente, come se dovessi scrivere un libro, la tua biografia. Sono massimamente esperta di te, e sento desolatamente la tua mancanza.

Ma quando il folder sarà stracolmo e cadrà a pezzi, sarà il segnale che è arrivato il momento di ritrovarsi, finalmente.

Noi due, unici su questa terra, anzi bagnasciuga, a respirare l’odore salmastro del mare. Il sale e gli schizzi d’acqua ci bagnano il viso. Come tante volte abbiamo scherzato, desiderato e anche sognato. Dammi la mano.

E il folder posso gettarlo ammare.

La mostra

La mostra era bellissima e a grande richiesta da parte dei fanz (!), vi racconto. Nell’appendice trovate i retroscena!

Arredamento di design, creativo, giocoso, di rottura, in cui gli oggetti non sono da mettere in mostra, ma utilizzati tutti i giorni, comodi, fatti con materiali pratici, e soprattutto belli e originali. Tutti pensati e realizzati, nel corso di questi ultimi 50 anni, da uno studio di pittori, architetti, artisti che immaginavano, attraverso la produzione di questi elementi, di cambiare il mondo: l’arte a disposizione delle persone e delle battaglie sociali. Lo studio, infatti, nacque negli atenei occupati, nelle strade, nelle piazze che durante il ’68 erano sedi di manifestazioni. Gli artisti facevano parte della sinistra utopica, contro tout court: contro l’architettura, il linguaggio, le convenzioni.
Direi la mostra giusta da raccontare in questo blog!

Vi presento i tre pezzi che mi sono piaciuti di più e che avrei portato tranquillamente a casa.

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C’era il divano Leonardo, modulare, in gomma piuma, con la stampa della bandiera americana, che poteva essere assemblato e diventare un cubo, oppure una chaise longue, o ancora un letto. E’ stato eletto simbolo della pop art italiana.

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Poi il divano Bocca, che nasce per evocare l’idea di bellezza assoluta, sensuale, peccaminosa, ma senza cervello. Un modo per denunciare, già negli anni ’60 il desiderio di apparire. E’ una seduta simbolo, realizzata per il centro benessere Counturella di Milano.

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E infine la poltrona gigante Mickey dei sogni, che quando ti siedi diventi bambino e quindi non ti vergogni di scherzare, ridere e giocare.

E dopo aver fatto la capogruppo di un gruppo di dipendenti a salario garantito (me compresa, eh!) che spengono il cervello, si incolonnano come amebe alla biglietteria, seguono la mostra, per fortuna con stupore e interesse, buttandosi poi però sui selfie da postare su Facebook e infine si catapultano all’apericena, che è l’aperitivo rinforzato a 18 euro cad., che ancora sto digerendo, posso collassare a letto.

Appendice

Raccolgo qui le domande più intelligenti che mi hanno fatto i colleghi la mattina in ufficio, con la visita guidata imminente. Un post-appendice che ha carattere di denuncia per il maltrattamento mentale subito, nei confronti della sottoscritta, me tapina, medesima.

  • Posso portarmi la macchina fotografica?
  • Il ritrovo è alle 17,45, se arrivo alle 18.05 mi aspettate?
  • Se perdo la metro, mi aspettate?
  • Se vengo solo all’aperitivo, va bene lo stesso?
  • Se porto mio marito, due figli minorenni di 11 anni, il cane quanto pago?
  • Se ho la tessera musei pago?
  • Se il mio accompagnatore non viene paga lo stesso?
  • Se porto mia figlia e una compagna della figlia e poi un’altra compagna della figlia e poi un’altra. Posso? [praticamente ha portato la classe intera]
  • Mi sono iscritta sulla intranet, ma mentre lo facevo, lavoravo, controlli se ho scritto giusto? Sai non me ne intendo… [c’erano tre campi da compilare: nome, cognome, sede dell’ufficio]
  • Replicate con altre date? [manco fossimo in turnee]

La sintonia ai tempi di WP

mango
Mi domando quanto si cerchi la sintonia nel mondo reale e in quello digitale. Nel senso di armonia, simpatia, slancio, nei confronti delle persone che ci circondano.

Perché, finché sei nella vita di tutti i giorni non puoi esagerare con il decluttering dei colleghi, parenti, amici, mentre nel virtuale cosa succede?

Qui, per esempio, in questo microcosmo che è WP, in cui puoi esattamente scegliere con chi parlare, chi seguire, con chi diventare amico, anche solo di penna. Cosa fai? Selezioni solo quelli che la pensano come te? Oppure ti piace confrontarti anche con chi ha le idee molto lontane dalle tue? Perché se non sei d’accordo e ti piace palesarti, rischi il flame. Devi essere diplomatico? Oppure dici si a tutti, o ancora se non condividi gli stessi pensieri, non dici nulla e magari lasci un like? Oppure ancora dici che piace quello che ti fa schifo o non capisci?

Certo, il rapporto con chi è ideologicamente lontano da te, è più faticoso, implica uno sforzo dialettale e non è detto che ne valga la pena. O si?

Si perde il confronto e la critica costruttiva se si ha a che fare con persone che la pensano come te, che votano, scrivono, hanno i tuoi stessi bisogni, interessi. Mi devo sforzare, perché non devo neanche cambiare strada per non incontrare chi non voglio vedere, a volte basta un click e ti defollowo e tu manco te ne accorgi.

Del resto il tempo è tiranno e quei ritagli di tempo in cui decidi di dedicarti a WP, li usi per colloquiare amabilmente, leggere un racconto, aggiornarti su quello che ti piace, mica ti va di sfracellarti i marroni con i post che proprio non reggi, siano esse poesie, aforismi, foto, quadri, racconti, cazzi propri o quant’altro ti annoia?

Tralasciando chi cazzeggia su WP, ma prendendo in considerazione solo le teste pensanti che mettono dell’impegno, cosa scatta in ognuno di noi che ti fa decidere, questo blogger lo seguo e questo, no per carità di dio? I temi trattati, lo stile, i follower. Cosa?

Nota:
1. Questo post, a buon diritto, rientra nella categoria ‘Seghe mentali’.
2. Si, mi piacerebbe avere la vostra opinione. Un like non mi basta.