Lost and not found

  
Ho perso l’identità.

Me l’hai rubata tu.

Così senza manco sforzarti, con quell’espressione non curante, che niente ti scalfisce, quel modo di fare che rapisce, impenetrabile, che non capisco cosa senti, cosa provi, cosa davvero vuoi.

Mi hai preso il documento con una scusa e non l’ho visto più. Chissà dove l’hai buttato?

Per terra? In un tombino scuro e profondo, dove i coccodrilli immaginari posso cibarsi al buio, dove i topi fanno festa, rosicchiando la carta, gustando la mia foto, leccando la mia firma in calce e il timbro della residenza.

Nella spazzatura? Che quando ti ricordi di scenderla è perché la cucina puzza troppo e non sopporti più la compagnia delle mosche e delle zanzare tutte.

O l’hai nascosto tra i libri della biblioteca, in mezzo a un volume dimenticato, ricoperto di polvere, di quelli che non legge nessuno, per ignoranza e per noia, per noncuranza. 

Oppure l’hai venduto al ricettatore sotto casa, quello che frequenta il bar dello sport, in cambio di due lire, un pacchetto d’erba e un ingresso per due al privè fuori città.

No, no, ho capito, l’hai trattenuto tu, me l’hai sottratto e lo conservi di nascosto per avere qualcosa di mio, perché non vuoi ammetterlo, neppure a te stesso, ma vuoi avere le mie generalità tutte per te. Che non potevi dichiarare il tuo interesse e allora hai architettato di rubarmi l’anima, il cuore, il cervello e pure la carta d’identità, per spogliarmi del tutto e lasciarmi nuda e imbarazzata a vagare senza sosta cercando l’attestato, il certificato che prova, senza appello, la mia esistenza.

Ho perso la carta d’identità, la residenza, la mia altezza, il colore degli occhi e dei capelli, la foto scattata anni fa, che forse non sembro neppure più io, il timbro, la firma del sindaco, la scadenza.

Non mi importa nulla, l’importante è avere te.

Ancora Roma

 m3mango 
Ed eccomi qui, di nuovo su un treno, preso per il rotto della cuffia, che a furia di correre mi stava partendo l’embolo, ad un orario pomeridiano che evidentemente non interessa a nessuno, perché è quasi deserto. Si popola di cinesi poi a Firenze, che cercano come rabdomanti il finto Wi-Fi di Trenitalia. Illusi! 

Io sto di fianco ad un tizio giacca-cravatta che digita, digita, forum di punk abbestia e siti di finanza creativa, ristoranti a Venezia e poste del cuore.

Ed io, svaccata come non mai, mi scialo scalza, appoggiando i piedi sul sedile opposto, coi capelli arruffati, lo sguardo assonnato, mentre provo a scrivere questo post.

È bellissimo lasciare Roma-16-gradi, in cui i taxisti sembrano appena usciti da un film di Montesano, chiacchierano, chiacchierano degli ultimi fatti sentiti alla radio, di collane e pietre preziose, in dialetto stretto, coi capelli unti e i giacconi scozzesi, cercando di convincerti che hanno ragione, e come sottofondo potresti scegliere tra Roma spogliata e Porta Portese e tu, nonostante gennaio, sei senza calze, come i tedeschi che scendono in Sicilia, e gli sembra faccia sempre caldo.

Ma è ancor più bello piombare dentro la Capitale: ogni volta è un tuffo al cuore e le sue pietre ti meravigliano sempre, come nessun’altra città al mondo. Anche se impari ad odiare i sanpietrini sconnessi, che non ti permettono di camminare a dovere sui tacchi, ma poi mangi gli spinaci all’agro e le polpette col sugo e pensi che sia la cosa più buona al mondo.

E i romani, che non son romani, perché arrivano dalla periferia del mondo, ti stupiscono ancora, perché arrivano all’appuntamento in orario, anzi in anticipo, belli e sorridenti, sempre con un aneddoto spassoso da raccontarti e un bicchiere degli amati colli da sorseggiare al tramonto.

Roma, aspettami, torno presto, ciao.

Acronimi amorosi

mango

A
mami, solo questo mi interessa, anche se non scopi solo con me, anzi proprio per questo motivo. Non sono gelosa, no, aspetta, lo sono, ma le imposizioni non servono a nulla, anzi, proibire è il primo passo per trasgredire. L’importante è tu corra da me, ogni volta.

Montami, come piace a me, da dietro, mentre le tue dita sfregano ed io trattengo il respiro e ti dico continua e il muro, a sua volta, sfrega sulla nostra pelle e i vicini sono costretti a tapparsi le orecchie, perché siamo sfacciatamente molesti.

Osiamo insieme. Voglio giocare con te, bendami, imboccami, leccami, odorami, 69 passaggi di te e di me, 69 di incastri e nascondini.

Resisti, resisti. Resisti? Mi resisti anche con questa lingerie di pizzo nero, le autoreggenti e il tacco che mi hai specificatamente chiesto, come la comanda che ritira il ragazzetto al ristorante? Che siamo seduti, uno accanto all’altro ed io vorrei scivolare sotto il tavolo e cercarti nel buio?

Eccomi, sono qui solo per te: ti voglio infilare la mano attraverso la camicia color latte e tastare i tuoi morbidi peli neri.

Mostrami cosa ti piace: le mani, la bocca, il naso, la bava, gli odori, l’acqua che scivola tra le nostre cosce, nella doccia troppo stretta, che non permette di muoverci a dovere, dove lo spazio è risicato, ma ci basta, è sufficiente per una vita insieme.

Io ti amo.

O no? Hai ancora dei dubbi? In quante lingue dei gesti, dei pensieri, delle opere e delle omissioni ti devo dire che ti amo alla follia?

Cercatori d’oro

  
Da una vita mi capita di trovare monete per terra. Un centesimo, cinque, dieci, venti, cinquanta, un euro, due. Una volta anche una banconota da cinque. Non credo sia fortuna, forse semplicemente mi capita spesso di camminare guardando per terra, concentrata come sono a tenere i piedi ben saldi, un passo dopo l’altro, mi perdo lo spettacolo che mi gira attorno.

O davvero c’è qualcuno che lascia le monetine sul mio cammino, appena qualche passo avanti a me, affinché io mi stupisca ogni volta e chinata le raccolga, anche se davvero di poco conto, senza quasi valore.

Qualcuno che conosce a memoria le mie abitudini, i desideri, i percorsi, i passaggi mentali e che con quella ferraglia inutile mi lascia un segno, un’approvazione, un croccantino, come se io fossi un animale domestico da coccolare e rassicurare, che necessita di una conferma, stai andando bene, piglia questa monetina per la tua collezione.

Ed io raccolgo e poi spendo, elimino, me ne privo. Non mi interessa accumulare, anzi vorrei possedere sempre di meno, sentirmi leggera, libera, indipendente. La moda del momento si chiama decluttering e solo il fatto che sia in inglese e che qualcuno ci abbia scritto libri, rende la pratica più cool e autorevole. Ma già prima della teoria io miravo all’essenziale, alla sostanza delle cose.

Ma tutto ciò non c’entra nulla col voler essere me stessa su questo blog, essere sincera, mostrare il mio io, la mia faccia. Certo, quello che scrivo sono io, ma è solo una parte di me, meno diplomatica, più dura, grezza, aggressiva, a volte pessimista, deprimente, stronza. Chi l’ha detto che bisogna essere sinceri, trasparenti, veri? Siamo su un palco e recitiamo una parte, sempre. E sul palcoscenico indossiamo un avatar, una maschera, che con cura scegliamo per piacere, a se stessi, agli altri, per esibizionismo, per masturbazione mentale. Sono tutte seghe, queste, seghe mentali, appunto, come le categorie di questo blog.

Palle (di cristallo)

  
Organizzare una visita guidata alla mostra di fotografia con aperitivo finale.
Per 300 persone.
Quanto deve essere interessante, per avere i motivi e le ragioni fondanti che giustifichino tale dispiego di forze, energie, concentrazione, tempo, denaro, affetti, sogni, bisogni, aspettative, calore umano?

Come devono essere questi scatti ambiziosi, per attirare il nostro interesse, rapire il nostro cuore, convincerci del fatto che davvero vale la pena, in un pomeriggio quasi serale, in pieno inverno, a due giorni dai giorni della merla, quando tutto è gelo, quando fa un freddo incostituzionale (cit.), non ancora sancito dalla amata Costituzione Italiana, che abbiamo fatto finta di leggere, durante gli studi a testa bassa di diritto civile, per un 25 di voto, che va bene, va benone per la media finale? Che decidi di abbandonare l’arrosto sul fuoco, la vasca da bagno fumante, con le candele che gocciolano cera fusa e lacrimosa, la roba da stendere, la riunione di condominio, la partita a poker via app, la lezione di pilates, la serie tv su Netfix, l’amore tra gli amanti, che ancora ti chiedi se il sesso è solo penetrazione oppure anche tutto il contorno?

La luce, i soggetti, il sentimento struggente che comunicano queste foto, queste immagini, davvero, mi chiedo, quanto devono essere belle, forti, impattanti, in modo tale che permettano un pensiero lungo più di 5 secondi, che sono già tanti, rapiti come siamo da talmente tante occasioni di distrazioni, superficialità, dimenticanze?

La palla di cristallo spesso mi chiedono ed io che manco mi ricordo quando non ho pagato al casello l’ultima volta in tangenziale, mi ritrovo a decidere con sicumera e padronanza e a disporre e predisporre di persone, cose, animali, dando per scontata l’ipotesi e la tesi, mentre invece è un azzardo, puro e semplice, una partita rischiosa al rialzo, che mette in gioco la mia reputazione, già abbastanza compromessa, la mia stabilità, che crolla in un soffio, la mia voglia di vivere, la mia positività, che nonostante tutto è ancora salda e che mi fa venire voglia di pensare di organizzare anche una festa per i miei primi  quarant’anni!

Anelli

 mango 
Metto la maggior parte degli oggetti di uso comune, che uso e riuso senza quasi farci caso, nello stesso identico posto, sempre. È una conferma, è una rassicurazione del mio stato febbricitante permanente. E nonostante l’abitudine mi perseguiti e mi lasci dormire sonni tranquilli, mi ritrovo spesso a controllare in maniera ossessiva di avere l’anello anche dopo aver fatto la doccia, a toccare tipo cornetto la tasca dello zaino nero e morbido comprato con orgoglio a Milano, da Pull and Bear, dove ci vanno le ragazzine allupate, a sfiorarmi le orecchie per sentire il duro degli orecchini a forma di fiore, che mi ha regalato quella che potrebbe essere definita la suocera di mia sorella, portoghesivamente parlando, a verificare di aver fatto click sulle chiavi dell’auto, ma solo la mattina, quando parcheggio davanti all’ufficio, in una delle zone peggio mal frequentate di questa ridente città della Pianura Padana, intrisa di nebbia e focolari, che d’inverno mi sta stretta e d’estate non ne parliamo.

L’anello, dicevo, non ho idea da dove provenga. Ne avevo preso uno carino di cocco, una fascetta con una lieve escrescenza bombata, che a voler essere maliziosi, chi? Io?, pare un clito in fase barzotta. Ma poi, per una strana evoluzione della mia testa, è rimasto sul marmo, in bagno, nonostante i 3 reais spesi, velocemente sostituito da questo anello screziato, che pare di osso, ma non ci giurerei sopra, manco da ubriaca, come quando a Trastevere o giù di lì, ho esagerato con il Sangiovese biologico, innaffiando il pasto ‘gnorante, in serena compagnia.

Non ho idea da dove provenga questo anello, immaginavo di averlo sottratto, inconsapevolmente, dal comodino di mia sorella, un pò come quando vai dal tuo collega, nella stanza accanto e gli prendi la penna sulla sua scrivania e ti ritrovi ad osservare il tuo portapenne, affollato di lapis che non scrivono e tu non sai, ma quello è il primo stadio di cleptomania acuta. Curabile?

Oppure potresti averlo comprato nell’ultimo viaggio in terra tailandese, perché te ne eri innamorata follemente ed ora manco sai perché esiste sul tuo dito e che cosa rappresenta. Perché gli anelli a volte han significati, a volte, dico. Questo mi piace da matti, ma non ne sono innamorata, sta con me, fino a quando non lo scorderò sui pianetti della doccia di qualche hotel di periferia.

Swingtown, Dan Savage e il Festival di cinema erotico

 

Ho finito Swingtown (alla lettera sveltina), peccato sia solo una stagione. Pare che avesse poco pubblico. Racconta di sesso ma non lo mostra. Parla di scambismo e di tre coppie americane durante la rivoluzione sessuale. Godibile, simpatica, affronta il tema con delicatezza, non in modo superficiale. Alla fine la coppia più aperta è quella più felice e si diverte di più.

Non so la ragione esatta per cui è stato sospeso, ma inevitabilmente mi viene in mente la posta di Dan Savage, tradotta in italiano sull’Internazionale. Tra l’altro questo è l’unico giornale al mondo (il mio mondo, of course) che merita di essere letto con costanza.
Io dichiaro tutto il mio amore non corrisposto per Dan, la posta del cuore di Dan. So che fa anche un programma TV, ma non l’ho mai visto. Le letterine dei suoi fan sono deliziose e senza tabù, si parla di fleshlight, rapporti vanilla e kinky, bdsm, senza giudizi, senza filtri e le sue risposte lo sono altrettanto. Leggere i commenti su Facebook dei criticoni repressi perbenisti (italiani) mi dà allo stomaco, come se esistesse davvero un giudice imperscrutabile che sale in cattedra e decide che cosa è giusto e cosa no. Ma dai. Ma per favore. Si scopa senza oggettistica, giochi di ruolo, solo MF, niente anal, che vita triste.
Il sesso non è al centro della mia vita, ma è importante e ognuno dovrebbe viverlo come più gli piace.

Sabato sera sono stata al Fish and Chips (naming stupendo, isn’t it?). Il Festival del cinema erotico. Che poi più che erotico era parecchio porno. Che platea c’era? Gente normale, giovani, anziani, madame sabaude, ragazzini eccentrici, gay e lesbiche, io.
Si respirava aria frizzante, pseudo intellettuale, persone pacate, anche se poi eravamo tutti un pò eccitati quando sono arrivati i sussulti in stereofonia, quando abbiamo fatto i guardoni davanti alle orge collettive a pieno schermo.
Ho visto un film molto bello, spiritoso, divertente, originale, con una sceneggiatura (!) ed uno abbastanza brutto, con poca storia, incomprensibile, gratuito. Uno era tedesco, l’altro americano con protagonisti di colore.
Schnick Schnack Schnuck era il titolo del primo, che è il gioco carta forbici sasso.
Il secondo non ve lo racconto perché ho avuto difficoltà a seguirlo, a parte vedere quel nero gigante, tutto muscoli e tatoo che penetra la protagonista. Era l’ultima produzione di Candide Royalle, precursore di Erika Lust, donne regista e produttrici di film hard, che si rivolgono ad un pubblico anche femminile e che propongono un sesso più realistico ed emozionale,  più artistico, tralasciando gli aspetti volgari del porno comune, pensato ad uso e consumo prettamente maschile (le sborrate coi fuochi d’artificio, per intendersi).
Perchè il porno è anche cultura e di donne così dovrebbero essercene davvero sempre di più.

Ricetta di caipi, non è un sito di cucina questo

  

Il rientro alla normalità è una ferita al cuore, che sanguina, sanguina e non si rimargina.

Non c’è niente che guarisca, anzi forse si, ma è lontano, troppo lontano, niente di accessibile. 

L’unica cosa a portata di mano è etilico ed è come lo sbiancante per i panni, le robe, che in realtà non schiarisce, ma ricopre con un nuovo strato bianco finto. La macchia, il dolore, rimane lì, dura a morire, e dopo qualche lavaggio riaffiora con beffa. Più brutta, più grave, più feroce di prima.

La metafora al gusto di lavanderia persiste, perché ho la testa nella macchina (della lavatrice) e nessuno viene a spegnere. La centrifuga gira, gira, gira, a novanta gradi. Che non è ecologico, non è etico, non è sano. Come quando usi pertugi alternativi per risparmiare i soldi dei goldoni.

Siamo chiusi in una gabbia dorata, come un leone incattivito, con quella bella criniera, la coda, il pelo e le unghie consumate sul cemento.

Poi passa, lo so. Ma il rientro alla normalità mi annienta. La sera poi. Il mattino meglio.

E apro il frigo e piglio uno dei mille manghi che mi son portata. Li tasto tutti, li palpo, ci ritorno su, voglio scegliere il più morbido, il più maturo. Lo pelo, lentamente, cercando di ricavare dalla buccia un’unica striscia. È una scommessa con me stessa, non posso sbagliare. 

Quanti sono quelli che fanno questo gioco? Se sbaglio e taglio il serpente perdo un punto, cento, mille. Come quando cammini sulle vie di fuga delle piastrelle della casa di tua nonna. E se metti il piede nel posto sbagliato precipiti come Alice nel paese delle meraviglie. E non c’è la botticina che ti aiuta. O forse sì. Me ne preparo una.

Poi taglio la polpa e la infilo nel boccaglio del mixer, con l’Absolut Vodka, il ghiaccio tritato. Niente zucchero.

Shakero.

Verso nel bicchiere.

Il calore del liquido mi inebria, mi calma, mi avvolge. Ho i coglioni ancora girati, ma sto meglio.

Obrigada, Brasil.

 mango 
E’ stato un viaggio allucinante, 14 ore sotto il sole cocente, in mezzo al nulla. Partenza alle 4 di mattina, senza neanche sapere bene dove andare. 

Già a quell’ora faceva caldo.

Avevo visto sulla mappa più o meno la destinazione, ma come spesso mi capita avevo studiato poco la meta. Certo, era sull’oceano, ma durante il tragitto spesso mi ero chiesta se davvero valesse la pena quella sofferenza, il caldo, il sudore, la stanchezza, le buche, il traffico dei camion, gli autogrill che sono stazioni di servizio col cesso otturato tipo trainspotting e i pasti pieni di mosche.

Per fortuna avevo scoperto il ghiacciolo al coco, puro toccasana, squisito. Mi era già successo altre volte, durante i viaggi, di provare disgusto per il cibo in balia di insetti tutti e di essermi tolta la fame con un gelato. Confezionato, certo, facendo finta dell’assenza della catena del freddo.

Dopo più di 800 km, che in quelle condizioni parevano almeno il doppio, arrivai all’oceano.

Mi ero spesso domandata in quelle lunghe ore, perché cazzo avevo deciso di risparmiare 250 euro, e non avevo preso l’aereo, spinta dal desiderio di vedere il Brasile da vicino. Non amo viaggiare da turista, adoro immergermi nell’ambiente, entrare in contatto con gli autoctoni, mangiare il cibo tipico con le mani, spostarmi scomoda per gustare da vicino la vita della gente del posto. Questa è la terza volta qui e ogni volta mi sorprende la natura, così potente, così protagonista. La terra rosa, grassa e feconda e la vegetazione rigogliosa. Non credo esista una tavolozza al mondo che riesca riprodurre tutte le gradazioni di verde che i miei occhi hanno assaporato in questi giorni. I miei occhi a riposo dal traffico, dagli schermi, dalle sfumature di grigio.

Credo di essere ingrassata, sicuro gonfia dal troppo alcol che si ingurgita ad ogni ora, tra birre gelate e caipirosche ai frutti tropicali, dai nomi irripetibili, dissetanti, che ti entrano nelle vene dalle 11 del mattino.

E poi gli orari sono davvero inconcepibili, soprattutto per me che in genere scandisco il tempo come in un ospedale: pranzo alle 11, merenda alle 16, cena alle 19. Invece qui ci si sveglia tutti alle 5 del mattino, si beve, si beve, si beve e poi si pranza e si cena contemporaneamente verso le 17. Siesta e poi relax intorno al fuoco.

L’oceano è fantastico. L’acqua è bollente, un brodo e la sabbia pare fango, è melmosa, ti avvolge calda e morbida e non si attacca al corpo. Non ho l’orologio e il telefono non serve a nulla. L’unico elemento che scandisce il tempo sono le maree, continue, ogni 6 ore.

L’amaca è una meravigliosa compagna, che ti culla, ti abbraccia e ti protegge dal sole.

Il ritorno l’ho fatto in aereo, però. 120 euro spesi bene.

Tanita sul treno, ancora ricordi di viaggio

 mango 
Tanita Tikaram mi accompagna, c’è più di una deroga al mio equilibrio.

Sono sul treno e vorrei aver rubato sfacciatamente quegli specchietti ovali che erano nella scatola dei sigari cubani al mercatino mineiro. Erano divertenti: da un lato ti potevi specchiare, dall’altro c’erano le figurine di donnine succinte come i peggiori stickers di Telegram che solo i tuoi michetti di WP possono condividere con orgoglio. E ne avrei tirato fuori uno, giusto per controllare per finta il trucco e spiare la reazione di questi anonimi compagni di viaggio, costretti a guardarsi in un orribile salottino ad alta velocità. Giusto un’alternativa allo scherzetto sciocco che uso fare in situazioni del genere, giusto per azzittire questi due milanesi rampanti che fanno finta di lavorare e parlano inevitabilmente di Bowie, un pò come fanno tutti, del resto, e magari non sanno neanche un titolo delle sue canzoni e che si batteva per le differenze di genere.

E ho ancora dentro il caldo bahiano, mentre sfrecciavo sul carro in quel traffico indiavolato, su quelle strade che parevano fiumi grigi in mezzo alle mille gradazioni di verde lussureggiante. E godevo a destreggiarmi, due settimane in Havajanas, per fare la spesa e chiedere frango, linguiça calabresa, pichana e chi più ne ha, più ne metta per il churrasco quotidiano, che si svolgeva mai prima delle ore 16, ora locale, nell’emisfero australe, innaffiato di birra, caipi e noce di cocco, per farmi pittare le unghie alle 7 del mattino, che qui costa pochissimo e rimane perfetto per giorni e giorni, come un piccolo ricordo che rimane nel tempo, spesso meglio delle collanine di semi, vendute sulla praia dagli indigeni bellissimi, col doppio nome. Perché la cultura del corpo è filosofia di vita, come la musica, la samba, bossa nova, i murales coloratissimi, i surfer che passeggiano per strada scalzi, inguainati nelle tute da squalo, con la tavola sottobraccio e fanno concorrenza ai miei occhi alle ragazze carioca.

C’è ancora tanto nella mia testa, ordinato come in una scaletta, disordinato come il letto sfatto che ho lasciato a casa. Continuerà questa storia, ne sono sicura.