Me l’hai rubata tu.
Così senza manco sforzarti, con quell’espressione non curante, che niente ti scalfisce, quel modo di fare che rapisce, impenetrabile, che non capisco cosa senti, cosa provi, cosa davvero vuoi.
Mi hai preso il documento con una scusa e non l’ho visto più. Chissà dove l’hai buttato?
Per terra? In un tombino scuro e profondo, dove i coccodrilli immaginari posso cibarsi al buio, dove i topi fanno festa, rosicchiando la carta, gustando la mia foto, leccando la mia firma in calce e il timbro della residenza.
Nella spazzatura? Che quando ti ricordi di scenderla è perché la cucina puzza troppo e non sopporti più la compagnia delle mosche e delle zanzare tutte.
O l’hai nascosto tra i libri della biblioteca, in mezzo a un volume dimenticato, ricoperto di polvere, di quelli che non legge nessuno, per ignoranza e per noia, per noncuranza.
Oppure l’hai venduto al ricettatore sotto casa, quello che frequenta il bar dello sport, in cambio di due lire, un pacchetto d’erba e un ingresso per due al privè fuori città.
No, no, ho capito, l’hai trattenuto tu, me l’hai sottratto e lo conservi di nascosto per avere qualcosa di mio, perché non vuoi ammetterlo, neppure a te stesso, ma vuoi avere le mie generalità tutte per te. Che non potevi dichiarare il tuo interesse e allora hai architettato di rubarmi l’anima, il cuore, il cervello e pure la carta d’identità, per spogliarmi del tutto e lasciarmi nuda e imbarazzata a vagare senza sosta cercando l’attestato, il certificato che prova, senza appello, la mia esistenza.
Ho perso la carta d’identità, la residenza, la mia altezza, il colore degli occhi e dei capelli, la foto scattata anni fa, che forse non sembro neppure più io, il timbro, la firma del sindaco, la scadenza.
Non mi importa nulla, l’importante è avere te.