Le parole delle canzoni che sai a memoria

  

 Viaggiare da sola , in treno o in auto mi fa stare bene. Il senso di distacco, la chiusura verso il mondo con le cuffie o i finestrini e la musica assordante mi restituisce come nuova. Vedere sfrecciare il paesaggio circostante, alberi, cielo, nuvole, lampioni, segnali stradali. È come se, è come se ti lasciassi tutto alle spalle, con una nuova possibilità in mano, da giocarti come vuoi. Che poi nessuno ti offre ‘sta carta, però in fondo, in fondo ci speri sempre. Perché io sono ottimista, allegra, positiva. Se poi bevo due prosecchi all’aperitivo serale, ancora di più.

Alla radio cambio canale in continuazione, senza regole, in maniera quasi fastidiosa, selezionando le stazioni solo in base al suono, alle frasi, alla musica. E quando scopro la canzone del cuore, quella di cui so tutte le parole, alzo ancora di più il volume. Certo, non le pronuncio da vent’anni, ma non mi sembra sia passato tutto questo tempo, perché Ragazza di campagna di Claudione nazionale, vent’anni fa mi pareva parecchio, parecchio trasgressiva, ora ovviamente mi fa solo tenerezza.

Ora che sono decisamente a un livello successivo del videogame XXX, leggere il testo della canzone non mi fa nessun effetto, però associato alla musica, con quella voce lievemente roca, da ragazzino, con un accento del Testaccio,  beh, la trovo ancora parecchio sensuale.

Sensuale e romantica come quando, come quando penso di comprarti una stupidaggine da mangiare e comporre in un pacchettino pieno di cuoricini, di biglietti amorosi, di labbra stampate, di vecchi cd che cantano il nostro amore, di rametti a forma di cuore, sassolini che sembrano cuori e tu ricambi con bottigliette ricolme di sborra, da aprire e bere tipo shottino rum e pera. 

Salute a noi!

Il garagista

  
Erano ormai anni che mi guardavi mentre venivo a parcheggiare l’auto nella tua officina, perché trovare parcheggio qui, nel cemento di questa cazzo di città, era ormai un’impresa impossibile. Mi squadravi con gli occhi, mi spogliavi, mi toccavi solo col tuo sguardo arrapato, che nulla lasciava al caso. E io mi divertivo a sculettare generosa davanti a te, con la minigonna, le autoreggenti e i tacchi vertiginosi. Mi piaceva atteggiarmi a troietta, farti una battuta ambigua, sono la regina del doppio senso, io.

E tu, a volte facevi lo sguardo da gatto, a volte mi guardavi senza riuscire a socchiudere la bocca, mentre per sbaglio fingevo di cercare qualcosa nel baule, inchinata a novanta, a volte mi fissavi, passando la lingua sulle labbra umide.

Sapevo benissimo che ti scopavi le altre clienti, che te le portavi nel retro e senza preliminari, senza presentazioni, senza gentili approcci, ti facevi fare una pompa, oppure affondavi il tuo cazzo da garagista sozzo.

Ero consapevole che non ci mettevi una vena romantica, manco per sbaglio.

Avevi il banco da lavoro, impegnato da mille attrezzi, di cui non conoscevo nè il nome, nè l’utilizzo. Sporchi di grasso, di polvere, di zozzerie tutte. Eri grezzo, con le unghie bordate di nero e una salopette che gridava vendetta. Avevi appeso con del fil di ferro arrugginito due calendari di puttane succinte, con le unghie laccate e la lingua calata.

Ed io invece, così fintamente raffinata, con lo smalto rosso, fresco e curato, i collant velati, la pelliccia sintetica che sembra vera, sotto il tailleur Chanel e la collana di perle.

E venivo verso di te, a un centimetro di distanza, facendo rimbombare i miei tacchi dodici. Scusa, signor  garagista ci sarebbe un lavoretto per te. E socchiudevo le gambe, aprivo giusto lo spazio e il tempo per farti capire che non stavo scherzando, giusto il tempo per farti intendere che non avevo gli slip, che ero fradicia, che volevo appoggiare le chiappe sul tuo banco da lavoro, che volevo divaricare le cosce e senza proferire parola, sentire la tua lingua sul mio pezzetto di carne incantato, titillato e bagnato, sentire le tue dita luride ad uncino, che sapienti si muovono, seguendo il ritmo del mio respiro affannato e rumoroso.

Bravo, garagista, bravo, sapevo di rivolgermi ad un professionista affermato, sai come prendermi, sai come farmi godere. Vedrai che se mi conduci all’orgasmo ti farò con trasporto un pompino coi fiocchi.

La mitica rossa

  

Dedicato a Ysingrinus, con cameo a Domenico Mortellaro.

Colgo il brief dell’ottimo Ysingrinus, per provare a scrivere un post di poco conto, su manichini e vestitori di manichini che si eccitano, mentre vestono e svestono quei corpi perfetti, sintetici e senza sesso.

Ero stata assunta parecchi mesi fa, in questa catena di negozi di vestiti low cost, roba che con 59,99 euro ti rifacevi il guardaroba con un discreto stile spazzatura. 

Avevo accettato solo perché mi avevano piazzato nel reparto dell’intimo. Era un pò un mio pallino, la lingerie tutta. Adoravo provarla, spiare i clienti che la indossavano nei camerini, piegarla nei cassetti, infilarla nelle borse dopo gli acquisti, ma soprattutto ciò che mi piaceva di più era avere a che fare con i manichini. Tirarli su di peso, sistemare loro la parrucca, provare le moltitudini di opzioni che solo l’intimo ti dà: slip, tanga, brasiliana, culotte, boxer, mutande, perizoma. Per non parlare dei reggiseni, dei reggipetti, come direbbe il cortese Domenico Mortellaro, che solo loro presentano innumerevoli sfaccettature, con la chiusura dietro, davanti, con il buco sui capezzoli, a fascia, a balconcino, a push up. Sceglievo i colori, i materiali e li vestivo delicatamente, tirando su, un po’ alla volta, lungo le gambe, gli straccetti di stoffa.

Le vendite andavano parecchio bene, ci mettevo tutta la passione e l’impegno che potevo. Giorno dopo giorno, avevo iniziato a dare un nome ai manichini, per riconoscerli e addirittura un carattere. Per cui a quella con i capelli rossi non avrei mai messo un completino basic, ma solo abbinamenti molto sexi e provocanti. Per dare maggiore carattere a questi, che ormai erano quasi diventati i miei colleghi muti, avevo iniziato a dotarli di accessori. Per cui se la mise era particolarmente trasgressiva avevo comprato oggettistica appropriata: una frusta, dei guanti di pelle neri, lunghi fino al gomito, tacchi a spillo, una velina maliziosa da sistemare sul capo. Dopo essere stati con loro tutto il giorno, in un monologo continuo da parte mia, mi ritrovai a sentirne la mancanza la sera e la notte. Vivevo sola e la compagnia di una persona, anche se un manichino, mi avrebbe fatto senz’altro piacere. Per cui una sera decisi di portarmi a casa, di sgamo, la mitica rossa.

Era ingombrante, ma staccando braccia, gambe e testa, ci stava benone nel saccone dell’Ikea.

Ed eccola lì, appoggiata sul mio inutile lettone a due piazze, ricomposta e vestita, anzi opportunamente svestita di tutto punto.

Era bellissima e quasi senza accorgermene, quella notte, mi addormentai di fianco a lei con una mano sul seno e una sulla glabra fica.

Il gioco del Memory

  
Non so se è una cosa buona, a volte credo di sì. La mia memoria fa acqua da tutte le parti, come un colabrodo abbandonato nella casa in campagna, dove ti stai trasferendo e dove m’immagino ci siano posate spaiate, piatti sbeccati, bicchieri della Nutella riciclati, tovaglie a quadretti con le macchie di vino che non vanno più via. Mi sbaglio forse? E tu che devi lavare i piatti a mano, perché non c’è la lavastoviglie. Che poi a me piace lavarli, mi rilassa. Come stendere i panni, le robe, sulla staccionata, con le pinze arrugginite di legno consunto. Che si asciugano in massimo un’ora e poi li ritiri, senza stirare, per carità, stirare è il male assoluto.

La casa in campagna, con i fichi distesi a seccare, i pomodorini appesi e le bottiglie di amarene, da condirci l’acqua ghiacciata. Ci ho passato le estati, sempre in bilico, con la voglia di scappare, con la voglia di sparire nell’orto, diventare trasparente e ascoltare di nascosto la musica appalla dei vicini di casa.

La memoria, dicevo, mi sta abbandonando e non servono i bigliettini, i promemoria, i calendar e gli Evernote. È tutto inutile, perché io dimentico che ore sono, perdo la strada, sbaglio giorno, confondo i nomi, non trovo la lista della spesa, non riconosco le voci. Solo la tua mi è nota e quando la sento mi sciolgo, mi liquefaccio come neve al sole. 

Ci sono dei fatti, nudi e credi, che ricordo fumosi e non riesco a collocare nella parallela spazio-temporale del mio cervello stanco. Ci sono cicatrici indelebili che testimoniano storie lontane, che mi hanno segnato e ora sono lontani ricordi. È come, è come giocare a memory, e ogni volta dimenticare a chi tocca, anzi, no a domino, a scopa, a poker, a strip poker, ma senza poter memorizzare mai le mosse passate. Per cui alla fine non ti diverti più, perché perdi sempre. Anzi, vinci, a volte, ma solo per caso. Perche i dilettanti vincono sempre, ma solo la prima volta.

Però dimenticare aiuta a guarire, e questo è un bene, perché puoi osservare il mondo dall’alto. Come quando, come quando mi metto i guanti lucidi neri, fino al gomito, che adoro e mi fanno sentire mistress, con quei tacchi instabili e afferro il gatto e tu mi aspetti a novanta fremente. E mi scrivi quelle mail soavi che non ti aspetti e lasciano intendere disponibilità a volermi scoprire, assaggiare, assaporare tutta.

E allora io, anche se non ricordo più quasi nulla, posso lasciarmi andare ed addormentarmi, malinconica.

Le fiche di Milano 

  
Quando ti vesti per andare a Milano devi sempre essere due gradini più in su, per forza. Perché a Milano è così, ci sono le strafiche tiratissime, modelle slave stupende, dee solo gambe con tacchi chilometrici. Per cui anche se in periferia sembri parecchio fuori luogo e a prima vista parresti una baldracca d’alto borgo, poi a Milano sei perfettamente calata nella parte e giri per via Manzoni con sicumera. Per cui sdogani senza incertezza gli stivali scamosciati neri con tacchi interessanti, gonna di pelle con frange lunghe, a metà tra charleston e rubber girl, occhiali da sole da nebbia padana e rossetto rosso d’ordinanza.

E quando sali sul magnifico Italo inizi come sempre a godere, questa volta con i Dire Straits e un tipo molto serio, giacca cravatta, a cui fai volentieri sbirciare le foto porno soft (poco soft), che scorri con non curanza sul tuo amato Tumblr. E intanto scrivi ispirata dalle vibrazioni dell’alta velocità e le montagne di neve stupenda che fanno cornice. 

E poi parli con lui e ti viene voglia di andare a sciare, di attraversare la giungla, viaggiare col quattroperquattro sul bagnasciuga, come quando, come quando, ero in Brasile e un mojito serviva a placare tutto, a piedi nudi nella sabbia e i baracchini di frutta e cachaça e zucchero di canna.

Quando torno a casa dei miei, mi piace da matti andare a spulciare negli armadi, respirare forte la polvere ovunque e scoprire chicche stupende dimenticate e sepolte nella memoria. Tipo il mio CD preferito, primo nella top ten dei CD di tutti i tempi, introvabile e sconosciuto che si appella Legalization ed il nome è tutto un programma. Dove cantano i Casino Royal, Neffa e i Messaggeri della Dopa, Marlene Kuntz e Giuliano Palma, nettamente di sinistra tutto ciò. E mi fa ridere perché quando all’improvviso abbiamo iniziato a parlare di cose serie, mi hai chiesto se ero di destra ed io ti ho detto con gli occhi a forma di cuore: ho sempre votato estrema sinistra, darling.

Ma ora sono sul treno, sono quasi arrivata ed eccomi alla canzone numero 9 dell’album On Every Street, nettamente un disco romantico, cazzo, cazzo! E piove pure!

La pioggia nel parco

  
La pioggia, le foglie, le gocce, la sabbia, la terra, le pietre. Piove su di noi, sui nostri visi, sulle tue ciglia nere, sì che tu par pianga ma di piacere.

Ti ho trascinato qui, nel parco dagli alberi secolari, nella penombra ormai crepuscolare dell’inverno. Hai fatto chilometri per raggiungermi ed io invece di condurti al caldo, ti porto in questo luogo umido e freddo.

Taci. Sei arrivato fin qui per me, fammi scartare con cura questo pacco, questo pacco sensuale.

Stringimi la mano e seguimi per le stradine strette, di questo piccolo bosco, fatto apposta per noi. Come se i giardinieri sabaudi avessero voluto comporre un giardino incantato, solo per me e per te e per i trans tutti, che battono in fondo alle rive del Po.

Seguimi, so dove condurti, proprio dietro la maestosa fontana, che sgorga acqua e decora il parco.

Odi? La pioggia cade sulla solitaria verdura. Sui nostri vestiti, sulle nostre teste, sui miei capelli a caschetto, sui tuoi riccioli neri.

Allargo le narici per sentire meglio l’odore della pioggia, le gambe per assaporare le tue mani che frugano sotto la mia gonna, le calze autoreggenti, il filino del tanga scuro.

Ascolta. Ascolta. Voglio che abbassi lo zip e tutto vestito infili il tuo membro tra le mie natiche e con forza ed audacia mi penetri al buio. Che i trans, i solitari passanti, le coppie tutte, possano essere testimoni maliziosi del nostro fottuto amore.

E piove sui nostri volti silvani, piove sulle nostre mani ignude. Che si cercano, che anelano tutti gli incavi dei nostri corpi.

Piove, Amore mio, prendimi qui e ora, come ti ho chiesto più volte. E quando saremo sazi, ti porterò al nostro caldo nido di perversione.

La prima corda

  
Abbiamo ricevuto l’indirizzo del laboratorio via sms, unito ad una parola in codice da pronunciare al citofono. Quel misto di imbarazzo ed eccitazione, che conosco bene, tipico della timida, quale sono.

Indosso jeans scuri attillati, con la cerniera in vista, tacchi e un semplice pull. Rossetto fuoco d’ordinanza.

Entro fingendo sicurezza, con lo sguardo fiero, squadrando con la coda dell’occhio gli altri ospiti. Mi sento osservata e mi nascondo dietro lo schermo del “Sono i nuovi, i nuovi del giro”.

Seduti sul divanetto, mi guardo intorno, ci sono già quattro o cinque coppie che hanno iniziato. È una cerimonia curiosa, in cui gli uomini sono concentrati, uno addirittura con la lingua che sporge di lato, a voler dimostrare tecnica e precisione. Le donne reagiscono diversamente, c’è quella che controlla i movimenti di lui, c’è la ragazza giovane, senza reggiseno, c’è quella più formosa che non nasconde un tanga nero, fuori concorso e dei capezzoli che gridano attenzione, spesso con gli occhi socchiusi.

Il mio sguardo cerca tra gli uomini in sala, per capire chi può essere quello giusto a cui offrirmi. Alla fine scelgo il proprietario del laboratorio, perché deve essere esperto e poi perché decisamente brutto, con in testa la delicatezza di non far ingelosire il mio accompagnatore. E quindi inizio l’approccio:

Lo faresti con me?

E lui: ora no, più tardi.

Ammetto un po’ di delusione, ma alla fine è la mia prima volta e forse non è così divertente avere a che fare con una principiante, per cui torno sul mio divanetto a godere degli occhi e a fremere di desiderio.

Poi ecco arrivare loro, non belli, ma decisamente attraenti, esperti, sinuosi. Esibizionisti, tanto che poi ci confidano di fare spettacoli insieme, nei privè in città.

E tu, mio accompagnatore mi offri a lui. Così, all’improvviso, ed io sono imbarazzata, perché sento la carica erotica che emanano. Ma loro tergiversano, lui dissimula. Per cui incasso ancora una volta un rifiuto. 

Dopo una piccola performance si avvicinano a noi. Ci chiedono chi siamo, cosa cerchiamo. Chi vuole nella coppia dominare. E si stupiscono, ogni volta della mia timida e ferma risposta. Sono io che ho deciso di venire qui, sono io che voglio legare, ma anche essere legata. Sono switch. Quella parola cristallina, accende i loro animi e lui mi prende per mano e mi accompagna sul palco.

Ti piace stare a testa in giù?

Si, mi piace. Portami fino in fondo. Sono qua per questo.

E inizia a legarmi stretta le mani dietro la schiena, a passarmi le corde sotto il seno, ad avvolgermi come un abbraccio le caviglie, le gambe, il pube, le cosce. Inginocchiato davanti a me, col petto scoperto, le bretelle e un piccolo corno al collo. Coi capelli raccolti, il tatoo e quelle mani sapienti, di dominatore professionista. 

Ed io chiudo gli occhi, mi concentro sul rumore della corda, sulle sue mani, sul suo fiato. Sulla sospensione: miei arti che piano, piano si muovono senza la mia volontà, mentre mi solleva, mi gira, mi capovolge completamente, mi divarica, mi fa ruotare su me stessa.

È una sensazione meravigliosa, completa, a lungo agognata. Sono eccitata, sono osservata da tutti i presenti, che in silenzio religioso partecipano al mio piacere.

Al privè

  
Andiamo, andiamo insieme, ci portano loro. Sarà divertente, lo sappiamo benissimo. Siamo eccitate all’idea, da mo’. Ridiamo, diamoci la mano, dita intrecciate, siamo in confidenza, siamo in sintonia. La tua risata cristallina mi riempie il cuore. Dicevo, stringimi le dita, entriamo così, trionfanti a muso duro. E loro dietro, che ci scortano, srotolo il tappeto rosso per noi.

Chissà dove cazzo pensiamo di andare, chissà che ci immaginiamo di fare, ma è sempre un gioco e questo ci basta.

Hai dei tacchi pazzeschi, infiniti, tu e la tua taglia 38, non ti stacco gli occhi di dosso, e non sono l’unica. Mi piace sussurrarti qualcosa all’orecchio e vederti sghignazzare, divertita. E poi per caso, darti un piccolo bacio bagnato, proprio prima dell’attaccatura dei capelli, che non ho capito ancora se sono biondi o no. Ma non importa, va benissimo così.

Andiamo, siamo già su di giri, un piccolo aiutino, naturale, sintetico, per non avere l’imbarazzo. Che alla fin fine, siamo sempre in un night club, un privè, un locale XXX. Come lo chiamate voi?

Entriamo, entriamo, prendiamo qualcosa da bere? Testa o croce, scegliamo quello fighetto o quello trash? Chetelodicoafare, quello squallido è perfetto, se mi leggi da un pò, già sai. E noi tiratissime, con latex, rubber e pelle tutta, siamo sicure di alzare qualche uccello assopito.

Siamo noi due, siamo noi quattro. Possiamo anche non fare nulla, giusto guardare, poi usciamo e stiamo tra noi. Però, però, siamo arrivati fin qui. Dai, vieni, diamo spettacolo. Ti afferro il braccio, ti tiro, inclina la testa, anzi siediti. Il tuo sorriso mi eccita, i loro sguardi mi fanno venire voglia di esibirmi. 

Niente, non ce la faccio, devo sedermi a cavalcioni su di te, devo baciarti dietro le orecchie, farti sentire il mio respiro. Chiudere gli occhi, cercarti con la mano, il tuo odore, il tuo sapore, non sono in me. Temo di avere esagerato con l’aiutino, ma sento che ti piace, sento il consenso nell’aria, anche se non riesco a capire chi c’è. No, no, no, non voglio andare in bagno, voglio farlo qui. Anche tu vuoi, perché me lo sussurri all’orecchio. Le mie mani, le tue mani, hanno fame di trasgressione. 

Aspetta, aspetta un momento, ma…

Non sono le mie, non sono le tue.

Di chi cazzo sono queste mani maschili? Maschili, mi pare. Devo ricordarmi la prossima volta che gli aiutini esagerati sono deleteri.

Però, però, ci piace. Ho capito, abbiamo capito di chi sono queste mani. Sono fin troppo note. E allora rilassiamoci, la serata è appena iniziata.

Il dono (II parte)

  
Comprami tu la gonna cortissima, talmente corta che mi chiedo a cosa serva. No, non è vero, non me lo chiedo perché lo so, ma mi piace ogni tanto fare quella che cade dalle nuvole. E’ che non sono credibile, ma mi sforzo di essere seria e anche un pò stupita. Chissà se mi riesce davvero? Me lo devi dire tu.

Se me la compri tu, oltre ad essere un dono, un dono simbolico, come piace a noi, forse la pianterai di sgridarmi che la mia è troppo lunga, troppo poco fasciante, troppo poco lucida. E forse la smetterai di punirmi, castigarmi, sculacciarmi, obbligarmi con la forza, prostrata e sottomessa a bere la tua sborra calda (è sempre calda, a quanto pare), alternata a liquidi non ben identificati. Forse la smetterai, si?

Ma io non voglio che tu smetta, of course, come quando mi rispondi in inglese, perché sai che mi piace. Come quando, cambi accento repentinamente, solo per confondermi, solo per stupirmi, solo per farti dire che la tua voce mi eccita, quell’inclinazione del suono che emetti, dalle tue labbra, che mi provoca cascate, cascate del Niagara

Ma allora sceglila tu la gonna, adoro pensare che l’hai scelta per me. Che sei entrato in un orrendo negozio di articoli fetish, hai chiesto la disponibilità della taglia e con cura, con cura e passione hai scelto quella che ti piaceva di più. Come un bambino dal giornalaio, sceglie un giocattolo agognato.

Non ti dico come la vorrei io, mi piace sapere che l’hai scelta tu e proprio per questo mi piacerà indossarla, sfoggiarla nei misteriosi privè in cui mi vuoi trascinare ogni volta. Ed io ti seguo sognante, come se mi portassi nel paese dei balocchi.

E i balocchi siamo noi e tutti i nostri giochi, che potremmo buttare in un sacco, mescolare, bendarci a vicenda e provarli su di noi e scoprirli ogni volta come fosse la prima. E ridere e scherzare, come ci succede sempre.

La immagino nera, questa gonna, che ora voglio, desidero, pretendo, lucida, uno specchio, una striscia superflua, che non copre nulla, che invita, che rende accessibile, a te, agli altri, ai depravati tutti, le mie forme.

So già quando indossarla, appoggiata all’auto, che ti do le spalle e ti aspetto contro di me.

Omaggi alle serie TV

Dedicato a N., la mia amica N.

Seguire le serie TV è un lavoro vero e proprio e un tempo era il mio secondo/terzo/dopo lavoro. Ora sono un po’ uscita dal loop, ma annovero una discreta esperienza. Del tipo che mi sciroppavo la no-stop di 4-5 puntate al dì (che poi era notte fonda).

In genere non amo le commedie, ma quelle legal, se c’è un pò di porno soft tanto meglio, drama sicuro. Se mi piacciono tanto, mi innamoro perdutamente del protagonista, che sia M o F never mind, ma #chetelodicoafare. Del tipo che poi passo il tempo a fare stalking su Twitter e Instagram, cose così da persona equilibrata e adulta, ecco, insomma.

Bando alle ciance, ecco la mia personalissima classifica, che non vuole essere esaustiva, ed è senz’altro di parte. Insomma la mia.

10. E.R.

9. Lost e Prison Break

8. Galactica e Banshee

7. Peaky Blinders

6. Downton Abbey

5. The Shield

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Vic Mackey è pelato, grassoccio, tozzo e dai modi rudi, corrotto fino al midollo, sexi da sbattere la testa contro il muro. Sette stagioni, non perde un colpo, regista, quel gran genio assoluto di Kurt Sutter. Storie di buoni e cattivi, in cui tutti fottono tutti. Malavita, crimine e quel famoso ‘treno dei soldi’ che mi ha fatto tenere incollata allo schermo per mesi.

4. Games of Thrones

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Porno soft fantasy. Storie intricate, mille personaggi. Non sempre ho capito tutto, anzi. Ho amato il nano, giusto perché mi mancava nella classifica di chi ti fa battere, battere il cuore. Anche la regina è meravigliosa, soprattutto quando su Instagram toglie la parrucca bionda e sfodera un tatoo da urlo sulla schiena. Mamma mia, mamma mia.

3. Sons of Anarchy

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La saga dei motociclisti, anche io mi sento del clan: le donne che tessono, gli uomini a cavalcioni sulle Harley, pura poesia stereotipata, anche quando Jack accoltella la madre, l’irlandese sfregiato si innamora della poliziotta maschia e Tig limona duro con la trans più bella del mondo.

2. The Good Wife

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Sempre genere legal, ho un debole per gli avvocati, ça va sans dire. Mi piaceva di più quando c’era anche Will, ma va bene lo stesso. L’avv. Alicia Florrick è perfetta, Kalinda, l’investigatrice privata in stivali di vernice nero, al centro delle mie fantasie proibite. E’ la serie che sto guardando ora, settima stagione, ahimè, the last one.

1. Damages

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Le due protagoniste sono perfette, così come la sceneggiatura, le luci, la regia. Ho ancora in testa gli occhi di ghiaccio di Glen Close, regina assoluta, perfida, impenetrabile, col coltello gocciolante in mano e l’avv. Ellen Parsons, bellissima e ambigua. Per me number one.

Palma d’oro, fuori concorso la prima stagione di True Detective, soprattutto quando lei piomba in casa dell’amico, scena mitica.

Tra le più brutte che ricordo di aver visto: AliasCapricaPersons Unknown.

Ne ho poi iniziate molte, ho seguito la regola ferrea nongiudicareprimadellaquartapuntata, ma niente non sono riuscita a proseguire. Tra queste: Orange is the new black, Dexter, Breaking Bad.