A te che sei speciale

  
Dove sei, che ti cerco e a volte sparisci, che non capisco se stai dormendo o ti sei messo a usare le mani. Tu che le mani le sai usare quanto il cervello, ed io amo sia le mani quando le usi, le abusi su di me in ginocchio, e io distesa sul letto con le gambe appoggiate sulle tue spalle, sia quel gran pezzo del tuo cervello che lavora, lavora e fa psicologia spiccia, che incrocia i ruoli, mette insieme le teste e i cuori.

Ma io ti perdono tutto, anche quando sparisci. Anzi, soprattutto quando sparisci e mi cerchi e mi dici che vuoi ucciderli tutti, anche quelli che non esistono e hanno vita solo nella posta del cuore.

Siamo due adolescenti, ci scambiamo la musica, gli eBook, le figu XXX, le parole, le opere, le omissioni, i viaggi per correre e rifugiarci in un letto che non è il nostro, ma lo diventa subito, subito.

Siamo due adulti, che giochiamo a fare i bambini, nel gioco più bello e istintivo, il gioco dei ruoli, il muratore, la padrona, la cagna, il porco, gli schiavi.

Che piano, piano, piano mi racconti di te, della famiglia tutta, dei drammi, dei pranzi, dei pizzi, dei piatti, dei dialetti, del rumore del mare.

Che con cura ti inventi le abilità che fanno presa, che funzionano su di me e con inaudita non curanza, me le snoccioli tipo sassolini bianchi nel bosco, pezzetti di pane raffermo seminati, affinché io possa scovarli, metterli in tasca e cercare il prossimo treno per riportarteli in mano.

Che alterni parole cristalline, amorose, sorprendenti, di quelle che si sognano e non si ammette mai di desiderare, a ordini secchi, perentori, imbarazzanti, umilianti.

A te che sei così speciale, che mi ritrovo rimbambita a scrivere parole d’amore, mentre sogno che mi pisci in bocca. Oibò.

La collega

 
Sei entrata nel mio ufficio, ti guardo da almeno un anno. Da quando ti ho regalato le lanterne cinesi, da incendiare e far volare nel cielo scuro della notte, durante la festa di compleanno che avevi organizzato a sorpresa per tuo marito. La stessa persona che tra una settimana sarà il tuo ex, legalmente parlando.

Che poi le lanterne erano un regalo, anche per me. Non mi hai quasi ringraziato, ma io già un po’ ti amavo o forse avevo solo voglia di infilare la lingua nei tuoi tre buchi. Niente miele e cazzate simili, l’ambrosia, il buchino, la fessura, la rosa, la gattina che profuma di pesca, il bottoncino che sa di fiori sbocciati in primavera.

No, mi spiace. Pane al pane, le parole hanno un significato e a me piacciono quelle forti, quelle che ti travolgono, che ti schiacciano per terra, inesorabili. Come quando lui mi sculaccia forte con la cinta di pelle.

Mi piacevi per motivi futili, sensazioni a pelle. I tuoi capelli rosso fuoco tagliati corti asimmetrici, i pearcing, i tatuaggi, il tuo culo importante. Ah, il pearcing alla lingua, quello me lo gusto, è una fantasia ricorrente che cerco, che cerco.

Dicevo, sei entrata nel mio ufficio ed io non resistevo. Guardavo il tuo trucco pesante e avrei passato il braccio sulla mia scrivania con forza, con decisione per spazzare via gli inutili fogli, fascicoli, penne, matite, mouse e temperini e fare spazio al tuo culo importante.

Ma hai fatto tutto tu, ti sei avvicinata, naso a tre centimetri di distanza e mi hai chiesto: un aperitivo insieme una di queste sere? Ed io ero già fradicia. Ero già lì a pensare a cosa mettermi addosso, sexi e al tempo stesso abbastanza pratico da strappare via.

Sei così diversa da me, eppure gli opposti si attraggono e quando eravamo seduti una di fronte all’altra a bere il terzo mojito avrei voluto baciarti, come una quindicenne il primo giorno di scuola. Con la sfrontatezza e l’inesperienza di una che vuole fare, ma non sa da che parte iniziare. Che ha uno in chat che le dice cosa fare, ma non lo ascolta perché si fida di se stessa. È ora sono qui che ti aspetto, perché tu mi fai sempre aspettare per ore, io sono una precisa, non sgarro di un minuto, mentre tu, solo tu, mi fai attendere le ore nel parcheggio, come un maschio al primo appuntamento. Lo faccio io il maschio dominante? Va bene, basta che mi fai affondare le labbra. Solo quello voglio, solo quello.

No, il maschio dominante sei tu, più dominante di me dominante. E io ti seguo mentre mi dici che il reggiseno non mi valorizza e me ne serve un altro. Ok, sceglilo tu per me. Entriamo in negozio, mano nella mano e tu istruisci la commessa e io sto muta. Lei sceglie per me. Voglio un reggiseno che gliele spinga su, che mi venga voglia di mungergliele per mesi.

E giriamo, giriamo, ne provo mille e alla fine tu dici si e io pago e lo compro. Poi tocca a te, scegliamo le autoreggenti perché alle quattro vai a scopare nel motel con nickname e io, io torno alla vita. 

Ci vediamo lunedì, in ufficio.

Quando viaggi in treno

  
Quella sensazione che provi quando stai per prendere il treno per Milano e sei sul taxi e appena sali dichiari l’orario di partenza e il tizio immancabilmente ti azzittisce dicendo che l’hai prenotato troppo tardi. Perché i taxisti vogliono guidare tranquilli, mentre tu vuoi solo dormire cinque, cento, mille minuti in più. Poi sicuro come l’oro, non arrivi mai in ritardo, alla fine aspetti sul binario al freddo come una cretina, ma il cazziatone odioso del taxista maschio e prepotente te lo becchi everytime. Matematico.

Ma io felicemente me ne sbatto, perché io sono così, annuisco fintamente preoccupata e sorniona mi accorgo che la mia agitazione viene completamente riversata sul taxista, che parte in quarta, e cazzo, fai il tuo lavoro.

Perché io sono per Uber, per il libero mercato, ‘che il protezionismo e le caste non hanno mai fatto bene a nessuno. Dobbiamo evolverci, il mio lavoro è innovazione, parola abusata da tutti e nessuno sa cos’è.

Poi salgo sul treno e godo per un’ora. Musica tutto-volume, nessuno che ti rompe i coglioni, vicino a una strafica milanese, che ti sorride, è vestita come te, forse abbiamo gli stessi gusti?

Anche tu ti sei iscritta al gruppo su Facebook pic-nic-boundage, hai una passione sviscerata per le gonne di pelle, le code sintetiche, il sushi, il parmigiano 36-mesi in tocchi così, le palline tailandesi, il rossetto rosso-scuro-baldracca-inside, gli orti botanici e viaggiare come un randagio, che sei davanti al tabellone delle partenze, e scegli a caso, affidandoti a quella puttana della dea bendata, con rispetto parlando? Si, anche io.

Poi ogni tanto alzi la testa, come per respirare, mentre sei intenta a spompinarlo fino al midollo, ti giri verso il finestrino, vedi la campagna padana e cerchi del verde che non c’è, ma solo grigio e giallo. E invece vorresti vedere le colline, il mare, Roma-città-eterna, e lui, anche lui. Perché alla fine non lo dichiari manco a te stessa, ma in fondo ti sei innnnn… No, cazxo non è vero. Schiaccia quel pensiero, con il tacco dodici, sull’uccello barzotto.

E poi la tipa  strafica milanese inizia a tossire e tu non puoi continuare a scrivere dal rumore assordante e per zittirla le soluzioni sono solo due, tre, centomila e tu lettore sai già le opzioni della mia mente distorta:

1. La limoni duro-duro

2. Le parli dei gruppi boundage che si incontrano tutti i secondi mercoledì del mese in un luogo secreto

3. Le offri ‘na cicca, ‘na gomma, ‘na cingomma

E lei ti sorride e per riconoscenza ti spiega dove andare a Milano, manco fossi una turista. E tu annuisci rapita. Arrivati, dobbiamo scendere. No, il numero non ce lo scambiamo. La mia vita è già parecchio incasinata così.

L’antipasto

Troviamoci in quel bar del centro, discreto e aristocratico. Mi riconoscete, sono sicura. Ho i capelli raccolti, le scarpe col tacco, l’immancabile impermeabile nero, legato in vita, da maniaca. Sarà divertente, rilassante, sorridere insieme, guardarci negli occhi, bere un caffè d’orzo in tazza grande, un marocchino, solo perché è proprio tipico di qui, una cioccolata calda.

Sediamoci, qua, accanto a questo microscopico tavolino tondo, vicini, che ci sfioriamo le gambe.

Parliamo, raccontiamoci come cazzo siamo finiti qui, senza di lui, che è lontano, ma è sempre, immancabilmente presente. Che ci manca, da morire. Condurrebbe lui i giochi, ne siamo certi.

Divaghiamo, partendo dal blog, dai racconti, dalle email smorzate, che non hanno nè capo, nè coda, non hanno un ‘caro’, un ‘cari’ iniziale e un saluto di congedo, una firma, un segno di riconoscimento, un nome vero, reale. Solo l’urgenza di mettere nero su bianco una sensazione, un sentimento, una curiosità, da condividere in quell’istante, impellente e al tempo stesso congelata nel tempo.

Tocchiamoci. So di essere invadente, ma ci provo, tento, ne ho bisogno. Mi sento il carico di lui sulle spalle, siamo una coppia, come voi due. Credo che lui farebbe così. Partirebbe da lì, una mano sulla coscia, sicura di trovare autoreggenti accoglienti, jeans stirati. Scusate, ragazzi, se sono inopportuna faccio un passo indietro. Non sono così aggressiva come sembro, o forse si, non lo so, forse dobbiamo chiedere a lui. Ma lui ci ha autorizzato, non saremmo qui, ora, se non avesse dato il via libera.

Allunghiamo le mani, non ci vede nessuno, nel locale affollato, abitato da mille occhi, puntati su di noi. Ma, no, non ci vede nessuno, non lo so, ma io continuo, sento l’urgenza di sentire i vostri corpi, come reagiscono alla mia, alla nostra sfrontatezza.

Osiamo, è questione di un istante, superiamo quel limite, che è solo nella mia, nella vostra testa. La mano aperta, ignorante, scorre decisa sulla vostra gamba, risalendo inesorabile. Anche tu, anche voi potete farlo. Sono qui, sono qui per voi, per annusarvi il collo, come una leonessa, siamo in tre, ma siamo anche in quattro. Lui è nelle nostre teste, il suo odore, il suo sudore sulla schiena, il suo sorriso, il suo sguardo strafottente, da bravo ragazzo apparente, i suoi boxer scuri, la sua pancia perfetta, i piedi che ho limonato a lungo.

Alziamoci, questo posto ci sta stretto. La temperatura si è alzata, nonostante, fuori faccia un freddo porco.

Vi voglio, entrambi. Voglio avervi su di me, sono venuta per voi. Dove andiamo, va bene ovunque, in questo momento vi seguirei come una cagnetta, con la coda sintetica che ho infilato di corsa nella borsa, metti che ci serva.

Chiudiamoci a chiave. Abbiamo un pò di tempo per fare conoscenza. Per sederci sul letto, aprire le gambe, spostare gli slip, infilarci la testa, la lingua, la bocca, il cervello, soprattutto quello.

Lasciamoci andare, è quello che volevamo, fin dall’inizio.

Facciamo due foto, per lui, gliele mandiamo. Questo è solo l’antipasto.

Hamman e Zurigo, andata e ritorno

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Mi fa stare bene il calore che emana il bagno turco: ti pare di entrare nel ventre materno. Sei nudo, tra nudi, col sapone di Aleppo in mano, che ti strofini senza parsimonia.

Amo andare all’hamman, qui in città ce ne sono parecchi, li ho provati tutti. Preferisco quelli di periferia, dove spesso sono l’unica bianca e le parole sono smorzate, da timide arabe. Sono così accomodanti, sorridenti, ti chiedono sempre di lavare loro la schiena. E a me quei corpi imperfetti mandano in estasi. Culi generosi, tette prosperose, piene, che viene voglia di accarezzare, leccare, tirare, stringere. Capezzoli scuri, da appoggiarci la testa e sonnecchiare nel calore umido e languido del bagno turco.

Oggi c’era una ragazza secca secca, con degli hot pants e un reggiseno nero con le spalline cadenti, che si occupava del massaggio alle clienti. La osservavo, anticipavo le sue mani su di me, ancora prima che me le mettesse addosso. Sentivo l’odore degli intrugli che applicava ed io avrei voluto baciarla. Ringraziarla di cuore del servizio che elargiva, come fosse una missione per l’umanità, il sapone, la crema, non so cos’altro, che ti spalmava con devozione, sui piedi, sulle cosce, sulle braccia piene di lividi lasciati da te, amore mio, sul viso, mentre tu vorresti urlarle: soffermati sull’inguine, indugia sul seno, infilati nei pertugi, negli incavi, nei buchi del mio corpo.

Quanto mi piacerebbe frequentare un hamman che offre servizi extra. Senza tabù, un massaggio completo, intimo, coinvolgente. Senza morale, quella usiamola per le cose davvero importanti. Senza limiti di orario, senza limiti e basta. Operatrici consenzienti, orgogliose del proprio lavoro ed io felice di pagarle, riconoscente.

Diventerebbe un’abitudine irrinunciabile, come fare l’amore, toccarsi e fantasticare. Come quello di Zurigo, che il sempre buon Vice ci consiglia e ci racconta. Che io andrei fino a Zurigo solo per quello, ma anche per il Langstrasse (l’ex quartirere a luci rosse, no-comment), il Kunsthaus (un must per gli appassionati d’arte, perchè non sono solo chiacchere e sesso a gogò), il Gestaltung Museum (per il design, cazzo il design) e il Centro Le Corbusier, chettelodicoafare.

22 ore

Con gli occhi a mezzo centimetro di distanza, allento la cinta, libero il bottone, abbasso lo zip, afferro il tuo cazzo e lo prendo in bocca, senza ritegno.

Non ce la faccio ad aspettare. Abbiamo atteso fin troppo. Troppe seghe al telefono, ditalini in videochat. Consumismo e spreco inutile di parole, polpastrelli, fumo, oggettistica per adulti, Made in China. Non ci siamo quasi salutati, ma lo so il tuo nome, almeno questo si, credo.

Protesa verso di te, sforzandomi di tenerlo in bocca e fissarti negli occhi senza riuscirci troppo. Finalmente ti vedo dal vivo, giuro che gli occhi non li stacco manco per pisciare, in queste 22 ore a disposizione.

Uso la lingua, su tutta la lunghezza, la punta, la bocca che stringe, avvolge, ingloba, la saliva che accarezza, lubrifica, lucida, la tua mano che accompagna, spinge, comanda la mia testa, l’altra che accoglie i coglioni. Ah, i coglioni!

E continuo imperterrita. Non mi voglio staccare neanche quando mi sei sborrato in gola. Non me ne frega un cazzo che sei venuto. Continuo, continuo, voglio che si accorci, si riduca, si ridimensioni, sempre in bocca. Voglio che tu mi spinga via la testa perché non ne puoi più. E mi dica, cazzo, basta, possiamo fare la cena, una passeggiata lungo il fiume, vedere un film (porno) mano nella mano, nel letto?

I passanti indolenti non proferiscono parola. Eppure i movimenti sono inequivocabili. Forse sono abituati, forse sono contenti, molto contenti.

Fine della corsa, siamo arrivati. Ricomponiti, ragazzo, ancora 21 ore per noi.

Al ristorante


Non ho fame, mi pare una perdita di tempo inutile. Non ho fame, ma mi piace darti la mano, intrecciare le nostre dita, farmi tirare un pò e seguirti saltellando sui miei tacchi instabili, mentre scendiamo dal taxi.

Non ho fame, ma hai prenotato e ogni tuo desiderio è un ordine. È una perdita di tempo, perché io ho bisogno di starti addosso ogni momento.

Andiamo, sono pronta. Mi sono preparata per noi, mi piaccio. Non sono nè bella, nè brutta, sono seducente per te. So esattamente quali tasti pigiare, al momento.

Sediamoci uno di fianco all’altro, al tavolo col cartellino ‘Riservato’. La sala è colma, i camerieri si muovono come su una scacchiera.

Non ho fame, ma ordiniamo qualcosa. Siamo qui, io e te, come una coppia qualunque. Eppure c’è il fuoco dentro i nostri corpi, tra le nostre cosce, nelle nostre teste, in fondo ai nostri cuori.

Non me ne frega un cazzo di mangiare. Mi basta uno yogurt al caffè da 500 grammi, raccolto col cucchiaio, seduta per terra, mentre ti accarezzo i capelli arruffati, dopo l’amplesso a novanta.

La tua mano larga sulla mia coscia che scorre dal ginocchio, sulle autoreggenti, sulla carne, agli slip, che non ci sono. Allargo le gambe, le pedine, i camerieri della scacchiera, ci guardano attoniti, imbarazzati, schifosamente arrapati. Allargo le cosce, inclino la schiena, ti facilito il compito.

Mi è venuta fame, finalmente. Toccami qui, ora, in mezzo al chiasso dei piatti in finta porcellana, le tovaglie immacolate, le posate in silverplate, le coppie vergini pallose, che non sanno niente del nostro amore. Sbranami, divorami, l’esibizionismo in luoghi pubblici, flashing, per gli amanti del genere, è una delle categorie porno che mi fa godere di più.

Siamo maleducati, inappropriati, cafoni, incivili, indolenti, sozzi.

Siamo noi, tu ed io.

L’orgia – La famiglia (III parte)

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Era ancora la stessa sera in cui potevo condurre i giochi. Per cui li concludiamo (temporaneamente) esattamente come avevo deciso.

Non posso fare a meno di baciarvi tutti e tre, non posso fare a meno di ringraziarvi e starvi vicino, addosso.
Avvicinatevi a me. Voglio realizzare quei famosi incastri di cui abbiamo conversato a lungo. Vi voglio attivi e passivi nello stesso momento.
Voglio dentro entrambi gli uomini nello stesso istante. Voglio che lui decida per primo dove, ma voglio anche te, se vuoi, se mi vuoi. Mi vuoi? Io non l’ho capito.
Sei stato nell’ombra, non riesco a materializzarti nella storia, ma sei parte integrante, ci servi, sei con noi, la famiglia.
Vieni qui. Mostrati, non voglio sembrare invadente, per cui fai come desideri, come hai concordato anche con lei. Sappi che mi puoi penetrare, anche lui ha dato il permesso.
Lo so, non è facile, gli equilibri sono instabili, ma ci vogliamo bene, tanto.
L’orgia che cavalchiamo è fluida. Gli incastri, siamo noi quattro.
Ci siamo annusati per giorni, ci siamo studiati, scritti, osservati, goduti, raccontati, ascoltati, amati. Ogni movimento è naturale.
Non ho in mente un copione, questa volta. Il brief è uno solo e lo dichiaro all’inizio, come in quella cazzo di agenzia di pubblicità in cui ho vissuto per anni. Ragazzi, sediamoci al tavolo. Qui comando io. Ho in seno la parola del cliente, che è il verbo. Per cui proponete le vostre idee, ma non si va a votazione. Io sono il giudice indiscusso. E il brief è il seguente: amiamoci.
Voglio qualcosa di sconvolgente, affettuoso, tenero, romantico, delicato. Voglio riprendere con la telecamera i nostri corpi intrecciati, tanto che riguardando il film dopo mesi non riusciamo a capire dove finisce il mio corpo e dove inizia il vostro. Ecco. Questo è il mio e il vostro benvenuto.
Dopo stasera posso cedere lo scettro. Sono soddisfatta. Sono venuta, siete venuti. Abbracciamoci, passandoci una sigaretta da bocca a bocca nello stesso letto, anzi sui materassi stesi per terra.

La famiglia (II parte)

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Vieni qui, diamo spettacolo.
Non bendarti, è un momento così atteso che voglio godermelo appieno.
Non bendarmi, non posso staccare gli occhi da lui. Non è una distrazione la mia, è che proprio non posso fare a meno di coinvolgerlo con la vista, è il mio prolungamento naturale. Io dipendo da lui, gli sono riconoscente, lo amo follemente, non posso non guardarlo mentre ti mordo i capezzoli e accolgo il tuo seno nelle mie mani a coppa. Seguo il suo sguardo, mentre ti faccio sdraiare sul letto e ti divarico lentamente le gambe. E lui cammina, si sposta, mi cerca, mi sfiora, mi guarda, mi segue, mi osserva, si tocca, si sega. Sento il suo alito nelle orecchie, il suo respiro alle spalle, il suo sguardo fisso, mentre con calma serafica muovo l’indice destro sul tuo clitoride, che piano piano, piano piano, diventa più duro, più turgido, più gonfio, più fradicio.

Lasciati tappare, leccare, schiacciare dal mio peso. Lasciati andare al piacere di tutti e quattro. Siamo dolcissime, ti accarezzo con infinito amore, con la sapienza di mille anni. Sei mia, sono tua, siamo noi quattro.

Lasciati penetrare il buco del culo, so che ti piace, lo sento dal tuo respiro affannoso, lo so da molto tempo. Continuo imperterrita come se fosse l’ultima cosa che faccio, a completamento di un desiderio durato venti anni. Ed è solo l’inizio.

Stai per venire, lo so, lo sento, mi stringi, continuiamo fino a quando me lo ordini tu. Sono qui per te, per noi. E quando ci distruggi l’udito con il tuo urlo stremato, ti sorrido e chiamo anche loro. Non posso fare a meno di baciarvi tutti e tre, non posso fare a meno di ringraziarvi e starvi vicino, addosso. La famiglia.

Mistresses – La famiglia (I parte)

 Ero pronta, concentrata, stranamente calma. La quiete prima della tempesta. Avevamo entrambe quel vestito di pelle nero, intrecciato sulla schiena. Cortissimo e inutile. Lasciava intravedere il culo, tondo e altero.

Ero pronta, ma avevo bisogno di cinque minuti da sola, per ripercorrere il film che avevo in testa. Il fatto che fosse la prima volta mi spaventava e mi eccitava allo stesso tempo. Potevo condurre i giochi, era una grossa responsabilità. Ok, ci sono. Mi state tutti aspettando.

E arrivo e vi trovo. Esattamente come avevo richiesto. A quattro zampe, nudi, col collare, bendati. Muovo i miei passi facendo attenzione a fare rumore coi tacchi. Voglio che il ticchettio vi rimbombi nel cervello.  Che visione i vostri culi pelosi a novanta, accessibili a me. Li accarezzo per un po’, uno per mano. Sento un sussulto al contatto della mia mano larga, accogliente, calda, che poi diventa dita a uncino, che si fa spazio nei buchi. Vi sento vibrare, vi ordino di baciarvi, ben sapendo del vostro disgusto. Non voglio un contatto abbozzato, voglio vedere le lingue intrecciate, la saliva che cola sgocciolando per terra, il naso schiacciato, il fastidio delle vostre barbe che sfregano, la foga del momento. Bravi, ragazzi, continuate così. Lei vi guarda soddisfatta e anche io lo sono, soprattutto quando indosso lo strapon sulla bocca. Bravi, ragazzi, siete abbastanza larghi per accennarle con lo sguardo di applicare sui vostri buchi il gel-a-base-d’acqua. E’ bravissima, esperienza da infermiera trentennale. Ok, va bene, siamo tutti pronti. Lei è la mia partner in questo studio che sembra quasi dentistico. E affondo il cazzo di gomma con la bocca, i denti, la lingua, come una lama che trafigge i vostri corpi ardenti. Una, due, mille volte. Li vediamo i vostri cazzi non sono carne, sono marmo. E al culmine esausta mi blocco. Passami una sigaretta già accesa, tesoro, ti dico. Fumiamocela insieme, ce la siamo meritata. Vieni qui. La sai passare da una bocca all’altra senza usare le mani? Ma certo, che domande. Le mani ci servono su di noi. Vieni qui. Mettiamoci davanti a loro, non ci daranno fastidio, per un poco. Vieni qui, ti voglio baciare le labbra aperte e bagnate. Vieni qui, diamo spettacolo.